di Massimo Lechi.
Tra i registi di spicco che hanno partecipato alle intense giornate di proiezioni e dibattiti della prima edizione di Manarat (9-15 luglio 2018), il nuovissimo Festival del Cinema Mediterraneo della Tunisia creato dalla produttrice Dora Bouchoucha con il sostegno del Centre National du Cinéma et de l’Image Animée e dell’Institut Français di Tunisi, Nabil Ayouch è probabilmente il più noto sulla sponda meridionale del mare che divide Europa e Africa. E certamente il più controverso.
Sin dagli esordi, gli acclamati e premiatissimi Mektoub (1997) e Ali Zaoua: Prince of the Streets (2000), il cineasta franco-marocchino, nato a Parigi nel 1969, ha saputo infatti imporsi sia per le innegabili capacità di narratore sia per il coraggio nel rappresentare le tare e le contraddizioni del Marocco contemporaneo. Rafforzata la propria fama con God’s Horses (2012), ispirato agli attentati di Casablanca del 2003, si è poi andato a scontrare con il muro della censura di stato e del fanatismo religioso a causa di Much Loved (2015), racconto corale con protagoniste quattro prostitute di Marrakech, opera bandita in patria e accolta con furia dai gruppi salafiti.
Razzia, il suo ultimo film, presentato a Manarat in concorso, è un grande affresco che racchiude in sé i conflitti che attraversano il Marocco di oggi e, più in generale, il Maghreb uscito scosso, impoverito ed esasperato da anni di riforme rimandate, promesse non mantenute e sussulti di ribellione effimeri. Tra passato e presente, tra un piccolo villaggio delle montagne dell’Atlante nei primi anni Ottanta e la Casablanca sull’orlo di una rivolta del 2015, si intrecciano i destini di uomini e donne assetati di libertà: un maestro elementare (Amine Ennaji) allontanato dai suoi alunni per essersi rifiutato di tenere lezioni in arabo e la donna berbera che per cercarlo si avventura nel caos della metropoli, un’elegante e coraggiosa borghese (Maryam Touzani, moglie di Ayouch e co-sceneggiatrice) prigioniera di un matrimonio infelice, un ristoratore ebreo (Arieh Worthalter) solo e disilluso, un aspirante cantante (Abdelilah Rachid) che tenta con caparbietà di uscire dalla miseria e infine una ricca adolescente (Dounia Binebine) dalla sessualità incerta. A unire il tutto, leitmotiv dolente e ironico, un gioco di rimandi al Casablanca (1942) di Michael Curtiz: grande sogno romantico, grande illusione di una città e di un paese mai esistiti.
Questo è il tuo film più ambizioso. Sembra il risultato di un lungo ed elaborato processo di osservazione e analisi della società marocchina.
Sì, è un qualcosa che ha avuto inizio vent’anni fa, quando ho deciso di stabilirmi in Marocco – le osservazioni, l’ispirazione dei personaggi, del paese…
Attraverso le cinque storie sembri voler dar spazio sullo schermo ai principali conflitti sociali e culturali che scuotono il Marocco di oggi. In Razzia si parla di condizione della donna, di minoranze linguistiche e religiose, di omosessualità e di molto altro. Mettere insieme tutto questo, anche solo da un punto di vista drammaturgico, è una scelta rischiosa.
Lo sarebbe se non ci fosse il tema dominante, unico, della ricerca della libertà.
I tuoi personaggi cercano sì la libertà, ma sono anche dei resistenti.
Certo, assolutamente: proprio come i personaggi di Michael Curtiz. Il mio è anche un film sulla resistenza.
Rispetto ai tuoi lavori precedenti sono parte del racconto anche segmenti della società che non avevi mai affrontato, come la borghesia.
Be’, c’è sicuramente qualcosa di chirurgico nel film, nel modo in cui ho raccontato i personaggi. Ho inserito questa borghesia di cui parli perché mi sono reso conto che anch’essa fa parte ormai di una minoranza. Ha soldi, potere, controlla l’economia ma è tagliata fuori dal resto. Vive in isolamento dal resto della società.
Una società che sta per esplodere.
Io conosco il Marocco: ci ho viaggiato in lungo e in largo, ci ho lavorato e lì ho fondato delle istituzioni culturali. C’è una forte tensione. Che poi è anche la tensione che ho voluto dare al film: una tensione molto precisa.
L’impressione del Marocco che io, da occidentale, ho avuto vedendo Razzia è quella di un paese in cui, progressivamente, implacabilmente, la diversità viene combattuta ed eliminata.
No, non è solo la tua impressione di occidentale: è proprio così. Il Marocco è stato costruito sulla diversità, che è stata la sua base per molto tempo. Ed è quello che mi ha sempre affascinato del paese. Io stesso rifletto questa ricchezza: mia madre è ebrea, mio padre è musulmano, mia moglie è di origine berbera e io ho studiato in una scuola cattolica.
Trovi dunque che il panarabismo sia una forzatura?
Diciamo che siamo fortunati a condividere una stessa lingua in oltre venti paesi – se in Europa avessero tutti la stessa lingua, probabilmente le cose sarebbero molto diverse. Ma a questo aspetto va data la giusta importanza, va lasciato nel posto che gli compete. Va bene finché non si cerca di imporre a tutti di essere parte dello stesso blocco, arabo e musulmano.
Tu sei un regista molto controverso in Marocco. Tre anni fa Much Loved è stato duramente attaccato, criticato…
E’ stato bandito, non solo criticato!
Dunque sapevi a cosa andavi incontro girando Razzia.
Sì, sapevo a cosa sarei andato incontro, ma questa non poteva essere una ragione per non fare il film. In quanto alle reazioni, diciamo che quello che ti aspetti non è mai quello che ricevi effettivamente. Quando ero a Cannes con God’s Horses, durante le discussioni, molti giornalisti avevano predetto che sarebbe stato messo al bando, e invece non è successo. Stessa cosa per Much Loved: ero convinto che ci sarebbe stato un dibattito molto forte, ma mai mi sarei aspettato una reazione simile, così violenta e isterica. A proposito di Razzia, tutti mi dicevano che ero pazzo, che sarebbe stato censurato, e alla fine è stato proiettato in Marocco.
Come ha reagito il pubblico?
Ci sono state reazione sorprendenti, specie da parte degli spettatori più giovani e di chi rientra in queste minoranze. Abbiamo girato tutto il Marocco per Q&A e dibattiti. Naturalmente ci sono anche persone che non vogliono vedere e sentire nulla di ciò che racconto – questo genere di persone esiste ovunque nel mondo.
Pensi che il pubblico interessato ai temi che affronti in Razzia e in altri tuoi film stia crescendo?
Sì, è proprio quello di cui sono convinto. Penso che a partire dalle primavere arabe siano venute fuori molte questioni. Tutto ciò che prima era nascosto, è emerso. Quindi ora c’è uno scontro nella società tra i due campi. E ci sono molte più persone interessate a vedere al cinema se stesse, i propri problemi e la propria vita. La vita vera, non quella che gli vogliono vendere.
Tu sei nato in Francia: sei francese, franco-marocchino. Hai mai pensato, nel pieno delle polemiche, di abbandonare nuovamente il Marocco e scegliere altre storie?
Dopo Much Loved abbiamo passato momenti molto difficili. Ma se nel 1999 ho deciso di lasciare la Francia e trasferirmi a Casablanca, ci sono delle ragioni. La prima, forse la più importante, è che mi sono sempre sentito ispirato da questa società. La società marocchina è frenetica, violenta, caotica, ma è una fonte di ispirazione continua. E sono sicuro, soprattutto dopo ciò che è successo con il mio film precedente, che il mio posto è lì. Per me sarebbe facilissimo andarmene, ho il passaporto francese, ma so che ciò che voglio esprimere come regista è in Marocco e non in Europa.
“Partire” è la parola chiave per tutti i registi arabi contemporanei e per i loro personaggi, credo.
Perché abbiamo spesso l’illusione che avremmo una maggiore libertà in Europa, e questo non penso sia vero. E poi, lontano dai nostri paesi, saremmo probabilmente molto più tristi e molto meno utili. Ci sono degli ostacoli contro cui combattere da noi, ma questa lotta, in qualche modo, dà un senso al nostro lavoro.
Anche perché la Casablanca ideale, come dici chiaramente nel film, è solo un’illusione. C’è solo la tua Casablanca, quella vera, con cui fare i conti.
Esatto, io ho la mia Casablanca, in cui vivo ogni giorno, in cui mi sveglio ogni mattina, prendo la macchina e, guidando per le strade, capisco perché resto.