di Massimo Lechi.
Cinquantaquattro anni, cittadino russo nato a Leopoli da una famiglia di origine ebraica, Vitaly Mansky è uno dei più importanti documentaristi in attività. Una figura rispettata sia in quanto cineasta sia in quanto animatore culturale – basti pensare alla fondazione dell’ArtDoc Fest.
Il Globo di cristallo per il miglior documentario attribuito al suo Putin’s Witnesses al Karlovy Vary International Film Festival 2018 non è stato dunque una sorpresa. Molte le aspettative legate al film, complice la natura dei materiali alla base del progetto: le riprese inedite, realizzate dallo stesso Mansky nel biennio 1999-2000 – inizialmente per delle produzioni dedicate a personalità politiche russe e alla vita nel Cremlino – che documentano il periodo di transizione seguito alle dimissioni di Boris Eltsin e gli esordi da presidente di Vladimir Putin. Immagini mai viste prima, a lungo tenute nascoste, catturate all’interno dell’ufficio presidenziale, nel salone di casa Eltsin o nella war room del comitato elettorale di Putin, grazie alle quali, del tutto involontariamente, il regista di Anatomy of t.A.T.u. (2003) e Under the Sun (2015), autore degli unici documentari autorizzati sull’attuale dominus della politica russa, ha saputo cogliere i momenti salienti di uno dei passaggi fondamentali della storia del suo paese.
Putin’s Witnesses è tante cose: la vicenda vagamente shakespeariana del fallimentare traghettatore della Russia post-sovietica e del suo impassibile e misterioso delfino, un destabilizzante viaggio dietro le quinte della politica più spietata, una riflessione sulla natura monolitica del Potere russo, una serie di fredde fotografie di complici e opportunisti (potente la parte dedicata alla questione dell’inno della Federazione e al ruolo giocato dai Michalkov, dinastia di artisti “di stato” passati con mirabile disinvoltura dallo stalinismo al nazionalismo ortodosso). Ma soprattutto è il diario intimo di un regista ritrovatosi nel difficile e al contempo esaltante ruolo di testimone oculare di una svolta storica decisiva.
Parto con una domanda retorica: come mai così tanto tempo prima di deciderti a fare questo film?
Prima, diciamo, la malattia non si era mostrata in maniera così pericolosa: non sembrava richiedesse un intervento chirurgico immediato. Ora invece, per me, è come quando stai male e prendi un anti-dolorifico e ti senti bene per un po’, ma poi vai a fare una tac, scopri che hai un cancro e devi farti ricoverare d’urgenza.
Vedo il film come una sorta di reazione ai tempi che stai vivendo e che sta vivendo la Russia. Una reazione che, da un punto di vista cinematografico, si sviluppa sia come un ritratto “impossibile” di Putin sia come una profonda riflessione sul potere.
Questo infatti è il motivo per cui il film non si intitola Putin e i testimoni ma I testimoni di Putin. Lo vedo come una riflessione su di noi che abbiano permesso che accadesse tutto questo e che lo abbiamo accettato volontariamente.
Non a caso, chiudi il film parlando di testimoni che diventano complici e infine prigionieri.
E questo dice tutto… (ride)
E’ quasi uno scherzo del destino che tu abbia iniziato lavorando a un film su Gorbaciov, per poi virare su Eltsin e infine chiudere trovandoti tra le mani – e davanti all’obiettivo – una figura del tutto misteriosa come Putin, che all’epoca era pressoché uno sconosciuto per l’opinione pubblica. Hai visto la Storia dispiegarsi letteralmente tra le tue mani.
E’ il ruolo di chi realizza documentari, quello di farsi cronista della propria epoca. Ovviamente ci sono modi e strumenti diversi. Il mio modo di raccontare l’epoca in cui vivo ha come tramite le persone, personalità importanti comprese. In questo caso è capitato tutto accidentalmente, e infatti sento una grande responsabilità.
Senti la responsabilità di un testimone che rifiuta di farsi complice?
Sì, esatto.
Ci sono sequenze impressionanti, nel tuo film. Penso a tre momenti in particolare. Il primo è quello in cui Eltsin assiste all’annuncio dei risultati delle elezioni presidenziali in casa sua, circondato dalla sua famiglia. Basta il suo sorriso da Buddha felice per capire tutto dell’incoronazione di Putin e del progetto – poi fallito – che c’era dietro. Lì riesci a cogliere in maniera plastica, attraverso l’immagine, la complessità delle dinamiche politiche. Gli altri due sono invece le brevi interviste in primissimo piano in cui Putin ti parla dell’inno sovietico riadattato come di un osso da lanciare a un popolo che non riavrà mai indietro l’Urss e del fatto che l’unico sforzo del potere debba essere quello di far credere ciecamente alla gente qualsiasi cosa venga detta dal governo.
Be’, in tutta onestà, questo è il modo in cui lavoro: osservando la realtà che mi circonda con attenzione e meticolosità, senza interferire, senza adattarla o piegarla… La questione dell’inno nazionale è molto importante perché mostra il compromesso che venne fatto per accontentare la parte più conservatrice della Federazione Russa, e per avere sondaggi migliori e un rafforzamento del potere governativo. E’ una via che è stata imboccata in Russia, da Putin, per la prima volta dopo la caduta della Germania nazista. Una via non molto diversa, credo, da quella scelta oggi da Trump in America.
La manipolazione del passato, insomma. Un tema che era già al centro del tuo Close Relations.
Certo, perché questo è esattamente ciò che il potere ha sempre fatto: la manipolazione è uno dei suoi principi. Prima però, in Russia, in termini di processo di sviluppo, si andava in una certa direzione. C’erano delle idee. Magari poco realizzabili, come nel caso dell’epoca comunista, o più realistiche, come negli anni dei democratici. Però c’erano. Quello che invece ha offerto Putin è stato semplicemente un ritorno al confortevole passato mitologico. Questo gli ha permesso di controllare l’elettorato – cosa in cui è molto bravo – più facilmente.
Spesso si ha la percezione che in Russia, più che altrove, questo passato costituisca un peso da cui è impossibile liberarsi davvero e che il potere sia un’entità sostanzialmente monolitica, eternamente uguale a se stessa, a cui il popolo reagisce in maniera assolutamente passiva. E’ anche ciò che traspare dai tuoi documentari o dai libri di Svetlana Aleksievič.
E infatti Svetlana Aleksievič non esiste per i media russi, perché ciò su cui lei ha costruito i suoi lavori è la desacralizzazione della Storia. E questo è in aperto contrasto con la politica culturale ufficiale, basata sul riadattamento del passato ai bisogni del presente. La Storia è stata trasformata in mito, è stata falsificata. In una simile situazione è impossibile parlare di civilizzazione o di sviluppo perché ci sono solo miti. Miti che raccontano solo vittorie e nessuna sconfitta, mentre la realtà le mostra entrambe.
Pensi che Putin stia facendo la stessa cosa con se stesso?
Sì, lo sta facendo. Ma questa non sarebbe in sé una cosa terribile. Il punto è che oggi in Russia ci sono piazze con una statua di Lenin da una parte e una di Nicola II dall’altra, e la gente non capisce più quale sia la base su cui è eretto lo stato.
Dopo aver lavorato così tanti anni con e su Putin, pensi di aver capito chi sia veramente? Dal tuo film ho l’impressione che per te il mistero Putin sia sostanzialmente irrisolto – se non addirittura irrisolvibile. Le sue azioni ti sono chiare, ma non la sua persona.
Perché Putin non è una persona: è un sistema. E chiunque prenderà il suo posto diventerà Putin.