di Massimo Lechi
Trent’anni, barbe folte, umorismo sornione e marcato accento romano, Damiano e Fabio D’Innocenzo – i Fratelli D’Innocenzo – sono le due rivelazioni cinematografiche italiane del 2018. Un anno segnato, finora, oltre che dal successo di critica de La terra dell’abbastanza, dalle vittorie a Cannes di Alice Rohrwacher, che con Lazzaro Felice ha realizzato il film forse più amato dell’intero circuito festivaliero, e di Matteo Garrone, tornato a raccontare l’oscurità dei bassifondi in Dogman, un’opera potente, liberamente ispirata al caso del Canaro della Magliana, e che vanta proprio i gemelli come collaboratori alla sceneggiatura.
L’incontro con Garrone – non è un mistero – è stato determinante per la realizzazione dell’esordio dietro la macchina da presa di Damiano e Fabio. Un noir atipico, il loro, dallo stile asciutto e sorprendentemente maturo, incentrato sulle tormentate parabole esistenziali di Mirko (Matteo Olivetti) e Manolo (Andrea Carpenzano), due amici delle periferie di Roma che, dopo aver ucciso per sbaglio un “infame” in un incidente automobilistico notturno, finiscono risucchiati in una vita criminale vuota e senza fascino che, un po’ alla volta, implacabilmente, li annichilisce e spegne, allontanandoli forse per sempre dagli affetti e dalla libertà.
Buio, sporco e doloroso, La terra dell’abbastanza è un film di innegabile compattezza formale e di forte tensione morale, nonché una prepotente affermazione di talento registico. Il passaggio fuori concorso nella sezione Another View del Karlovy Vary International Film Festival 2018 è stata l’occasione per una lunga chiacchierata sul cinema con i suoi appassionati e tenaci autori.
Siete arrivati al lungometraggio senza passare prima attraverso dei corti. E’ un percorso insolito.
Fabio: Ci siamo arrivati in maniera estremamente, diciamo, screanzata. Siamo andati a proporre il progetto a molti produttori che, probabilmente, non hanno creduto in noi nemmeno dal punto di vista personale. Il nostro modo di porci non era per niente istituzionale. Avevamo dei modi molto diretti, franchi – cosa che potrebbe sembrare una qualità ottima nella vita di tutti i giorni, se non fosse che nel cinema ci sono dei protocolli. Già il fatto di non aver avuto una formazione classica – di non aver frequentato il Centro Sperimentale, per esempio – ci precludeva alcune relazioni, alcuni agganci. All’epoca, quando abbiamo scritto il film e abbiamo iniziato a proporlo in giro, il cinema italiano era saturo di film di genere noir, criminale…
Di quanti anni fa stiamo parlando?
Fabio: Sei anni fa.
Domenico: Prima che uscisse Non essere cattivo.
Fabio: Un bellissimo film, che tuttavia ci mise i bastoni tra le ruote, perché molti vedevano nel nostro copione la coppia di protagonisti di Caligari e quella sua cifra un po’ malinconica. Perciò abbiamo iniziato a lavorare come ghostwriter per altri registi, poi come scrittori con firma per Sergio Castellitto, Alex Infascelli e, per ultimo, Matteo Garrone – cosa che ci ha dato grande visibilità e ci ha insegnato tanto, a cominciare dal fatto che il cinema è un’arte estremamente materica, concreta.
Quindi il lavoro su Dogman è precedente al vostro film.
Fabio: Sì, è precedente… Siamo stati fortunati a realizzare il film nonostante circostanze che inizialmente ci sembravano un po’ “tropicali”. I nostri produttori ci hanno dato libertà pressoché totale, anche sulla scelta del cast e della crew. E il fatto di essere in due ci ha dato una capacità di resistenza doppia. Resistere è molto complicato, e lo è ancora di più quando senti una storia in maniera viscerale.
Qual è il vostro background? Se non sbaglio, siete entrambi autodidatti.
Damiano: Assolutamente sì. In realtà, poi, c’è un po’ di confusione su di noi. Abbiamo passato l’infanzia – quella che io intendo come infanzia, cioè dai sei ai diciassette anni – ad Anzio, Lavinio e Nettuno, anche se alla stampa piace dipingerci come “quelli della strada”…
Cosa che vi ricollega forzatamente al vostro film.
Damiano: Esatto, è una semplificazione, che tuttavia non ci dà fastidio. Veniamo effettivamente da un contesto modesto, anche se la nostra famiglia ci ha aiutato molto in quella che può essere considerata la nostra formazione culturale. Per esempio, offrendoci una libreria sconfinata a casa, con l’alto e il basso della letteratura italiana e mondiale – quindi Bukowski, John Fante, Marguerite Duras, Rodari, Pasolini… C’era davvero tanto da cui attingere, e noi abbiamo attinto, in maniera segreta – senza dirlo, senza dircelo. Una simile consapevolezza culturale non la trovavi nemmeno nelle famiglie più borghesi. Quindi questa storia di noi come pifferai magici usciti dal nulla è un falso mito.
E in più c’è stata anche una lunga gavetta.
Damiano: Considera che noi abbiamo iniziato a fare questo lavoro, bussando alle porte del cinema, quando avevamo più o meno vent’anni – quindi ormai nove anni fa. E benché noi fossimo sempre ottimisti, e forse un po’ presuntuosi circa le nostre qualità, i primi tempi sono stati disastrosi: tornavamo a casa e non avevamo niente con cui riempire il frigo.
Fabio ha usato la parola “formazione”. Ecco, leggendo la sinossi de La terra dell’abbastanza, uno potrebbe essere portato a pensare che si tratti del solito romanzo di formazione criminale. E invece non lo è.
Fabio: Noi volevamo fare una sorta di noir, usando ciò che solitamente nel noir è relegato oltre la dissolvenza. E volevamo dare pochissima enfasi a quelli che sono gli snodi principali di una crime story, come l’omicidio – tutte cose che sbrighiamo in cinque o sei secondi, mentre ci soffermiamo molto di più sul prima e sul dopo, cioè sui momenti in cui i personaggi si rivelano. Il fatto che il film venga identificato come un romanzo di formazione criminale va bene per gli esercenti, per chi il film deve venderlo, e non è una categoria che rinneghiamo. Però pensiamo di aver messo dei puntini di sospensione, e il pubblico questo lo coglie, capisce i motivi per cui abbiamo realizzato il film: declassificare il genere, parlare del modo in cui stiamo al mondo e di come dobbiamo mascherarci per sopravvivere.
Nel film c’è una centralità dei rapporti umani e tra generazioni che fa passare in secondo piano tanto gli elementi del genere – che comunque per scelta mettete tra parentesi – quanto lo studio antropologico della fauna che raccontate. Anche in questo vi discostate in parte dal filone borgataro a cui vi hanno associato.
Damiano: Il termine che hai usato, “fauna”, è veramente evocativo e precisissimo. C’è un che di chiaramente animale e naturale nella nostra storia, pur parlando essa di uomini – e dunque di cameratismo, di escapismo eccetera. Il tema delle generazioni – avere degli specchi, dei figli che sono specchio dei genitori – invece è venuto leggermente dopo, e ci interessava poco nel momento in cui concepivamo il film in chiave drammaturgica, sapendo poi che lo avremmo riscritto con gli attori. Abbiamo lavorato molto sulle contraddizioni dei personaggi, sui colori, sui simboli. Spesso i simboli vengono relegati al teatro, si accusa un film di essere troppo simbolico… Cazzate. Al cinema i simboli contano. All’inizio de La terra dell’abbastanza vedi Zingaretti che si porta su una lavatrice: già subito sai che questo è un penultimo, che non c’è nessun glamour alla Suburra o alla Romanzo criminale. Nel nostro film raccontiamo di cani sciolti: cani sciolti con la rabbia. Tutto è becero, basico, e infatti credo che lo spettatore non possa immedesimarsi, non riesce a provare nessun tipo di fascinazione per i personaggi.
Se il non permettere allo spettatore di immedesimarsi è una scelta precisa, come contavate di coinvolgerlo? Io, per esempio, per tutto il film ho percepito il senso di smarrimento dei personaggi. Ed è stato quello smarrimento ad attrarmi.
Fabio: Be’, essenzialmente il film parla di due naufraghi, di due ragazzi che provano dei sensi di colpa che non sanno come scacciare, e che cercano di entrare in un universo criminale che non ha alcun tipo di fascino. Entrambi inseguono il nulla. Tu parli di smarrimento, ed è vero. Lo smarrimento è dato probabilmente dal fatto che lo spettatore si chiede fino a dove ci si possa spingere… Ma non c’è uno stop: la fine è la morte. Però penso che il discorso dell’empatia sia molto soggettivo. Anche se i personaggi compiono dei gesti criticabili moralmente, non li perdi. E se Mirko e Manolo fossero davvero stati dei gangster o degli assassini – cosa che sono solo in parte, non certo nel profondo – il pubblico non sarebbe stato toccato dalle loro morti.
C’è una grande tensione morale nel film. Una tensione che credo si rifletta anche nelle vostre scelte di regia.
Damiano: Tutta l’arte – almeno, la buona arte – si basa su una componente etica molto forte. Però il confine tra morale e moralista è sottile, quasi risibile, tanto che per noi il pericolo di cadere nel burrone della retorica c’era – e ci spaventava molto. E’ una questione di equilibrio, di tenere il manubrio saldo. Con la troupe siamo sempre stati molto fermi circa quello che non volevamo e che volevamo. Abbiamo sempre detto: “Regà, ascoltateci. Noi pensiamo di avere le idee molto chiare. Non sappiamo se verrà fuori un film bello o brutto, ma sappiamo esattamente quello che non vogliamo, ovvero il compitino con la spiegazione e la firma sotto.” Sapevamo, poi, che sarebbe stato un autogol trasformare il film in un film intellettuale – cosa che odiamo, che sentiamo presuntuosa, esclusiva…
Parli in generale di un approccio intellettualistico al cinema?
Damiano: Sì, non è ciò che sappiamo fare e nemmeno ciò che ci interessa da spettatori. Odio il cinema che parla a se stesso, odio il cinema che si specchia e che si piace.
Come lavorate sul set e, prima ancora, in fase di scrittura? Vi dividete il carico?
Fabio: Quello della scrittura è un processo abbastanza peculiare, anche se molto semplice per noi. Non facciamo scalette: abbiamo una visione globale della storia. Ci mettiamo a un tavolo con dei quaderni e ci confrontiamo su una scena, poi ci dividiamo e la esploriamo ognuno per conto suo. Però spesso abbiamo una comunione di gusto totale, quindi finiamo con lo scrivere le stesse cose. Sul set invece c’è semplicemente meno tempo, quindi è tutto molto dinamico: quando mio fratello è al reparto scenografia io sono al reparto fotografia, quando io mi occupo dell’aspetto audiovisivo lui magari sta parlando con gli attori e viceversa. E’ uno sdoppiamento che ci permette di non far passare in secondo piano nessun elemento…
Damiano: E di non accontentarci.
Fabio: Di non accontentarci, esatto. Nelle opere prime tendenzialmente ci si accontenta di quello che si ha, e poi si va al montaggio e si prova a fare il miracolo.
Buona la prima.
Fabio: E’ il motivo per cui questi film sono quasi sempre delle lettere di intenti.
Però voi stavolta avete lavorato con i migliori: Paolo Bonfini alla scenografia, Paolo Carnera alla fotografia, Marco Spoletini al montaggio.
Fabio: Sì, ma li abbiamo scelti. Una cosa che ti dicono spesso, quando sei esordiente, è di non affiancarti a professionisti consolidati perché rischiano di mangiarti il film. Questo però avviene solo quando la tua identità artistica è vaga. Quando invece sai dove andare, ci vai grazie a chi questo lavoro sa farlo. Noi abbiamo scelto quelli che ritenevamo i migliori, in ogni reparto, ed è stato semplice perché sono venuti tutti a condizioni svantaggiose, a un terzo del loro cachet abituale, e lo hanno fatto per la storia…
Damiano: La storia del nostro film, eh, non la storia in generale, la gloria… (ride)
Damiano ha parlato di istinto, di natura… Il vostro film però è stilisticamente molto asciutto, tutt’altro che selvaggio. Mi sembra, se non una contraddizione, di sicuro un contrasto interessante.
Fabio: Ormai c’è questa deriva dardenniana, scaturita dal fatto che i Dardenne sono dei grandi cineasti e i loro film meravigliosi… Il pedinamento, il seguire i personaggi da vicino: senti molto l’artificio, senti molto la camera. E la camera ti ricorda che stai guardando un film. Invece, secondo noi, il modo migliore per raccontare la nostra storia era con uno stile asciutto, e anche con delle scelte di regia atipiche, come per esempio l’uso insistente dei primissimi piani e dei totali – i due estremi – per rappresentare le interiorità in un contesto che mangia il singolo. Come diceva Raymond Carver, che è uno dei nostri riferimenti, l’obbligo di uno scrittore è quello di raccontare bene una buona storia, e niente di più. Ed è quello che abbiamo provato a fare. Ma è stato tutto molto istintivo, di pancia: il nostro non è un film nato a tavolino, “storyboardato”.
Adesso che storie volete raccontare?
Damiano: Adesso abbiamo in cantiere questo film western, Ex vedove… E resta da capire di che cantiere si tratta: se uno di quelli della vita, in cui per cinque anni stai lì fermo, oppure se saremo più veloci – la seconda ipotesi è quella più probabile. Però abbiamo già scritto anche una favola dark contemporanea, sulle fobie quotidiane, e stiamo lavorando a una storia d’amore. Ci piace spaziare e usare i generi per far entrare lo spettatore più facilmente nelle nostre storie, e per raccontare più facilmente quello che ci interessa. Noi poi abbiamo questo brutto vizio, peggiore di una droga, di scrivere tanto: le storie che vengono così così proviamo a rivenderle, e quelle buone le mettiamo in un cassetto – che è sempre più grande.
Scrivete tanto e parlate tanto, anche.
Damiano: Parliamo tantissimo e questo è buono per te ma non per chi ci deve ascoltare. (ride)