di Antonella Pina
Marcello Pagliero è nato a Londra nel 1907 da padre italiano e madre francese. E’ stato attore, sceneggiatore e regista, ha lavorato tra l’Italia e la Francia ed è ovunque poco conosciuto. Fino a pochi mesi fa non esisteva uno studio che ne indagasse la carriera cinematografica. Il 2018 è l’anno della sua riscoperta. Il Cinema Ritrovato gli ha dedicato una retrospettiva utilizzando il titolo del libro scritto dallo storico del cinema Jean A. Gili, Marcello Pagliero “l’italiano di Saint-Germain-des-Près”, uscito quest’anno per afrhc (Association Franc᷂aise de Recherche sur l’Histoire du Cinéma). I film presentati sono stati quattro: Roma città libera; Un homme marche dans la ville; Les amants de brasmort (Gli amanti del fiume) e Vestire gli ignudi.
Roma città libera è stato girato in Italia tra il ’45 e il ’48 ed è interpretato da Valentina Cortese, Andrea Checchi, Nando Bruno ed un simpaticissimo Vittorio De Sica nella parte del “signore distinto”. Le collaborazioni alla sceneggiatura sono molte, tra queste ricordiamo quelle di Zavattini, Flaiano e Suso Cecchi D’Amico. Roma città libera racconta la storia di due giovani disperati. Lui, tradito e ridotto in povertà dalla donna che amava, medita il suicidio. Lei, povera e sola, prende in considerazione l’ipotesi di prostituirsi. Vivono nello stesso palazzo ma non lo sanno e una notte si incontrano casualmente per le strade di Roma. Interagiscono con personaggi bizzarri e restano coinvolti in un furto di perle. Dopo essersi ignorati e maltrattati, tornano insieme verso casa consapevoli di non essere più soli. Si tratta di un film particolarmente interessante perché mescola armonicamente molti generi: è neorealista per come dipinge la disperazione dei due giovani protagonisti, fatta di solitudine e povertà; è cinicamente divertente come un film della Commedia all’italiana nel tratteggiare la figura del ladro che salva il giovane dal suicidio, e quella del “signore distinto” che ha perso la memoria e si aggira per i bar della capitale alla ricerca di se stesso; e infine, nella parte noir della storia, ricorda l’atmosfera dei film francesi degli anni ’30 con il gangster che gestisce una bisca clandestina, una femme fatale cinica e bara e i poliziotti, dall’aspetto non molto diverso da quello dei gangsters, che indagano su un furto di gioielli. In queste atmosfere noir ci è parso di vedere una somiglianza con il film di Augusto Genina Les amours de minuit del ’31, visto a Bologna lo scorso anno.
Un homme marche dans la ville girato in Francia nel ’50, è interpretato da Jean-Pierre Kérien, Yves Deniaud, Ginette Leclerc e un piccolo Jean-Pierre Léaud di appena cinque anni, chiamato sul set perché si aggirava da quelle parti in quanto figlio di Pierre Léaud collaboratore del regista. Da ciò traiamo una rivoluzionaria conclusione: fu Pagliero e non Truffaut a portare per primo Léaud sullo schermo! Un homme marche dans la ville è forse il film più conosciuto del regista, almeno in Francia, dove venne accolto molto favorevolmente dalla critica cinematografica, non altrettanto dalla stampa cattolica che lo condannò duramente per il pessimismo senza speranza e la deriva morale di alcuni personaggi. Del resto, essendo i suddetti personaggi lavoratori del porto o loro familiari, il film non piacque neppure alla stampa comunista e Pagliero venne accusato di “esistenzialismo”. Un homme marche dans la ville racconta la storia di Madeleine, una donna frustrata con un figlio di cinque anni, sposata ad un portuale dal temperamento violento e innamorata del capocantiere che invece la respinge. Un dramma privato di miseria e umiliazione che termina con il suicidio di Madeleine. Sullo sfondo c’è Le Havre: il lavoro duro e malpagato del porto, la città distrutta dalla guerra e scomposta in grandi pietre ordinatamente accatastate in attesa della ricostruzione.
Les amants de brasmort (Gli amanti del fiume) del ’51 con Nicole Courcel, Robert Dalban, Frank Villard e Jacky Flint, è stato girato in Francia, a Conflans-Sainte-Honorine, un porto fluviale a pochi chilometri da Parigi, e lungo il tratto della Senna compreso tra Conflans e Rouen. Il cuore della storia è il mondo delle chiatte, a noi già noto per aver letto La chiusa n°1 di Simenon. Negli anni ‘50 le chiatte in legno senza motore, trainate contro corrente da cavalli, stavano sparendo. Per il trasporto delle merci lungo i fiumi venivano sostituite da quelle in ferro dotate di motore. Il brasmort è un braccio morto del fiume dove le vecchie chiatte in legno venivano abbandonate a marcire. Per chi lavorava nel settore la chiatta era una vera e propria abitazione e non soltanto un mezzo di trasporto. Il regista ci porta dentro queste case galleggianti mostrandoci come vi si svolge la vita: il soggiorno, la cucina, la camera da letto. Osserva il muoversi delle barche lungo la Senna; il momento in cui il carico viene imbarcato; l’apertura delle chiuse, e mette in scena perfino un inseguimento tra due chiatte. Sullo sfondo ci sono storie di uomini e donne con legami difficili e tormentati: gelosie, frustrazioni, rancori, tradimenti. L’atmosfera è sempre grigia anche quando si parla d’amore. Ma Les amants de brasmort ha un lieto fine.
Vestire gli ignudi del ’54, girato in Italia con Eleonora Rossi Drago e Gabriele Ferzetti, è tratto dall’omonima commedia di Luigi Pirandello. E’ la storia di una donna indirettamente responsabile della morte di una bambina che tenta di uccidersi perché schiacciata dal senso di colpa, dopo aver toccato il fondo prostituendosi. Salvata, mente su se stessa e la propria storia cercando di cucirsi addosso una veste nuova che le consenta di coprire la sua anima messa vergognosamente a nudo, nel tentativo disperato di tornare a vivere una vita dignitosa. Ma il destino è implacabile e smaschera il pietoso inganno. Anche questo è un film cupo, con momenti d’angoscia e senza lieto fine. La struttura narrativa è complessa. Il personaggio di Ersilia si svela non per gradi ma per colpi di scena. L’uso del flashback avvalora il falso racconto che la giovane tesse per chiedere un po’ di affettuosa indulgenza, mentre alcune sequenze oniriche svelano progressivamente il peso insostenibile della verità.
Jean A. Gili. Marcello Pagliero “l’italiano di Saint-Germain-des-Près”
La retrospettiva è stata curata e presentata da Jean A. Gili che ha scelto per Bologna quelli che ritiene essere i quattro migliori film di Pagliero. Lo abbiamo incontrato in Piazzetta Pasolini, sotto il proiettore con la lanterna a carbone, e gli abbiamo chiesto di raccontarci qualcosa di questo regista poco ricordato in Italia.
Da dove nasce il suo interesse per Marcello Pagliero?
Devo dire che il mio interesse per Pagliero è nato da una curiosità. Io sono un esperto di cinema italiano, l’ho sempre seguito e quindi, naturalmente, conosco Roma città aperta. In quel film Pagliero è uno dei protagonisti, è l’ingegnere che viene torturato. Il film è del ‘45. Quattro anni dopo, nel ’49, firma in Francia Un homme marche dans la ville. Cosa lega questi due momenti? Chi è quest’uomo che realizza un film decisamente riuscito quattro anni dopo essere stato attore in un film di Rossellini? Queste sono state le domande che hanno mosso il mio interesse verso Pagliero. E poi, forse, sono stato influenzato dal fatto di avere qualcosa in comune con lui: io sono nato a Nizza e Pagliero a Londra, ma i nostri padri erano italiani e le nostre madri erano francesi.
Le mie ricerche sono iniziate negli anni ‘80 e più informazioni ottenevo e più la mia curiosità aumentava. In Francia esistono molti articoli sui singoli film di Pagliero, ma nessuno storico del cinema lo ha mai studiato a fondo. Negli anni ’50 Robert Pilati scrisse sui Cahiers du Cinema un pezzo decisamente favorevole al regista in cui cercava di inquadrarne la personalità, ma non è sufficiente per poterlo conoscere in modo approfondito. Il materiale che stavo raccogliendo era molto interessante ma sapevo che nessun editore avrebbe investito denaro in un libro dedicato ad un regista che si trova ai margini del cinema francese conosciuto. Poi è intervenuta l’Associazione degli storici del cinema che ha approvato il mio progetto. Già l’anno scorso Il Cinema Ritrovato voleva dedicare una rassegna a Pagliero e così, quando Gian Luca Farinelli ha saputo che il libro sarebbe finalmente uscito, ha insistito perché lo presentassi quest’anno. Allora ho accelerato un po’ il lavoro ed eccomi qui.
So che il suo film preferito è Un homme marche dans la ville.
Sì, sono stati scritti molti articoli elogiativi su questo film. Si era parlato dell’arrivo in Francia del neorealismo italiano. Io non credo sia proprio così, non è un film veramente neorealista. C’è l’influenza del neorealismo ma ce ne sono altre, c’è anche quella del cinema francese. E’ un prodotto strano che non ha precedenti e non ha discendenza: è rimasto unico. Forse l’unica discendenza è l’altro film di Pagliero girato in Francia in quel periodo, Les amants de brasmort.
Forse io ho preferito Les amants de brasmort. Un homme marche dans la ville ha un inizio notevole, dove il racconto viene costruito nei grandi spazi del porto di Le Havre, spazi che il regista sembra saper gestire. Poi in realtà finisce con l’averne paura e la storia si sviluppa chiudendosi dentro la taverna.
Sì, la taverna. Tra l’altro non sono ancora sicuro se la baracca che funziona come taverna sia stata ricreata in teatro a Parigi come gli altri set chiusi, come ad esempio l’appartamento di Madeleine o il commissariato di polizia. In un primo momento lo avevo pensato, ma poi osservando la porta quando si apre, e si apre spesso, si ha l’impressione che l’esterno non sia uno sfondo con la fotografia del porto ma il vero spazio del porto. Quindi non lo posso affermare con certezza ma penso che la baracca sia stata allestita all’interno del porto di Le Havre. Per tornare alla sua considerazione, in effetti forse ha ragione, probabilmente Pagliero ha avuto la necessità di semplificare un po’ il lavoro, non era ancora completamente padrone del mestiere, lo sarà molto di più nel film successivo, Les amants de brasmort, dove mostra una maggiore disinvoltura nell’effettuare le riprese lungo il fiume.
Un homme marche dans la ville è un film molto cupo, senza speranza. Pagliero era un uomo triste?
Secondo me Pagliero era un uomo disperato, soffriva di malinconia e a volte i personaggi dei suoi film si suicidano. Sì, il suicidio è un argomento forte nel cinema di Pagliero. Si suicida Madeleine in Un homme marche dans la ville, si suicida Paola buttandosi dal ponte in Desiderio.
Anche la morte di Ersilia in Vestire gli ignudi è quasi un suicidio e comunque la storia ha inizio con il suo tentato suicidio. E Hélène, la madre di Jean in Les amants de brasmort, tenta il suicidio buttandosi nel fiume dalla chiatta.
Forse la sua malinconia con il tempo gli ha sottratto un po’ di vitalismo. Fare il regista è un mestiere difficilissimo perché richiede una grande energia vitale, una volontà di ferro e una notevole capacità lavorativa. I quattro film presentati qui a Bologna rappresentano il punto più alto della sua carriera, dopo c’è ancora la Mondana rispettosa da Sartre che non è male, pur essendo un film difficile da girare perché la storia si svolge in America e Pagliero ha dovuto ricreare a Parigi un set americano. La cosa funziona abbastanza bene, si vede che non siamo in America ma funziona. Successivamente non sarà più padrone del racconto. Non è ben chiaro cosa gli sia capitato. Nel ’52 torna in Italia dove realizzerà alcuni film tra cui, nel ’54, Vestire gli ignudi, l’ultimo film della rassegna. In Italia però non si sente completamente a suo agio, vi resterà tre anni e poi tornerà definitivamente in Francia. Vivrà a Parigi con una signora che ho potuto intervistare e dall’intervista emergono alcune cose sulla personalità del regista da cui si evince che, dal suo ritorno in Francia, la passione per il lavoro l’aveva abbandonato. Comincerà a girare cose in cui non crede, semplicemente perché gli vengono commissionate. Tra il ’54 e il ’55 adatterà per il cinema il feuilleton Chéri-Bibi, poi si trasferirà in Nuova Guinea per le riprese di uno strano film d’avventura, L’Odyssée du capitaine Steve. Girerà un film anche in Russia, Vingt mille lieues sur la terre, parafrasando il titolo del libro di Verne. Un film interessante che racconta il viaggio di tre francesi in Russia. Pagliero ha voluto fortemente fare il regista ma probabilmente questo mestiere difficile lo aveva deluso.
Invece Les amants de brasmort ha un lieto fine, anche se non molto convincente.
Sì, secondo me è una concessione alla produzione: il film doveva finire male. La coerenza narrativa non conduce al lieto fine, non è in linea con il racconto. Uno dei motivi per cui preferisco Un homme marche dans la ville è proprio perché qui non c’è il lieto fine. Comunque entrambi i film sono molto interessanti anche per il loro contenuto documentaristico: il lavoro del porto e il mondo ormai perduto delle chiatte.
Nei film di Pagliero spesso troviamo un bar. Si bevono tantissimi bicchieri di rosso. In Un homme marche dans la ville, la ragazza che entra nella taverna e chiede un succo di frutta crea un certo imbarazzo.
Sì, lo dice anche Pagliero: “Se avessero premiato il regista che ha più volte utilizzato un bar come set, io avrei vinto il premio”. Era anche consapevole di essere un po’ portato verso l’alcool. A Parigi era molto noto nei locali di Saint-Germain-des-Pres, per questo il mio libro si intitola “L’italiano di Saint-Germain-des-Pres” e come avrà notato il titolo è messo tra virgolette perché è una citazione. Fu Andrè Bazin che lo soprannominò così.
Pensavo che l’italiano di Saint-Germain-des-Pres si riferisse al luogo in cui viveva.
Sì ci viveva, ma solo per poter essere vicino ai celebri locali di quella zona, per poter uscire da casa e sedersi al Deux Magot o al Café de Flore. Nella stessa zona c’è anche il Montana, un famoso hotel, molto raffinato, con un bar dove le persone possono ritrovarsi pur non essendo ospiti dell’albergo. Funziona così anche il bar del Lutetia. Pagliero fissava gli appuntamenti di lavoro al Montana, ci incontrava il suo sceneggiatore, Robert Scipion, il regista Astruc e anche i giornalisti che volevano intervistarlo. Io ci sono stato di recente e quando ho detto alla signora che gestisce il locale del mio libro su Pagliero, mi ha chiesto di portargliene una copia per poterla esporre all’interno del bar. Anche Sartre andava al Montana. E’ un locale un po’ appartato e molto riservato dove gli intellettuali e gli artisti potevano restare tranquilli e chiacchierare a lungo. Invece il Flor e Le Deux Magot hanno i tavolini all’aperto, sei in mezzo alla gente, tra i turisti, è un’altra cosa.
Un film italiano di oggi da non perdere?
Mi è piaciuto molto Dogman. Ho visto anche Loro di Sorrentino, la versione internazionale montata in un unico film di circa due ore e mezzo, e mi è piaciuto.
Secondo lei le persone che hanno sempre detestato Berlusconi, uscendo dalla proiezione continuano a detestarlo nello stesso modo?
No, lo detestano un po’ meno, perché nel film diventa un essere umano quasi simpatico. Mi è parso una sorta di risarcimento, senz’altro dovuto all’interpretazione di Servillo ma anche alle intenzioni di Sorrentino: non posso pensare che il tema trattato gli sia sfuggito di mano.
E invece A Ciambra?
Ah! Mi è piaciuto molto.