di Renato Venturelli.
Ciro Guerra, Alejandro Fajel, Ali Abbasi. Cannes 2018 non ha riservato le sorprese degli ultimi anni nel campo del cinema schiettamente di genere, ma nel corso del festival si sono visti film che si confrontano con le diverse tradizioni del cinema di genere e in vario modo vi riflettono. E’ il caso del colombiano Parajos de verano di Ciro Guerra, dell’argentino Muere, monstruo, muere di Alejandro Fadel, o dello svedese Grans / Border di Ali Abbasi: tutti film che non rientrano entro i canoni tradizionali del film criminale, horror o fantastico, ma che ne rielaborano variamente le formule. E con i registi che nelle dichiarazioni hanno riflettuto su questo rapporto da posizioni molto diverse: nelle loro dichiarazioni c’è al tempo stesso una chiave di lettura dei singoli film, ma anche un più generale ripensamento sui generi oggi.
Secondo Ciro Guerra, i generi sono gli archetipi della nostra epoca: “Per me Parajos de verano è un film noir, un film di gangster. Ma può anche essere un western, una tragedia greca e un racconto di Gabriel Garcia Marquez. In un certo senso, i generi sono diventati gli archetipi mitici della nostra epoca. Dalla notte dei tempi, l’essere umano ha cercato di servirsi del mito per dare un ordine e un senso a un’esistenza caotica il cui senso ci sfugge. E’ la funzione dei generi oggi: predeterminano la nostra comprensione del mondo e ci annunciano su quale terreno una storia va a dispiegarsi. A questo proposito mi sono sempre identificato con i narratori delle prime civiltà. Noi facciamo la stessa cosa che facevano nelle loro caverne 30.000 anni fa: servirsi di ombre e di luci per raccontare una storia”.
Alejandro Fadel ragiona invece sul rapporto tra Muere, mostruo, muere e il cinema horror. “Spero che il mio film coinvolga e faccia paura. Ma è vero che il film si serve dell’orrore in modo indiretto. Utilizza il genere come una scusa. Gli rende anche una sorta di omaggio, ma introducendo alcuni cambiamenti nella formula classica. Se si continuano a ripetere le stesse formule, anche se funzionano commercialmente, il cinema finisce sempre per perdere. Penso che si dovrebbero trovare nuovi modi di fare dell’orrore. I film di genere all’americana, solo loro li sanno fare come si deve. Hanno il budget, la tecnica e un senso del racconto che oggi sembrerebbe un po’ vuoto di interrogativi. Si seguono dei codici e un’estetica predeterminati, al punto che un computer potrebbe montare il film senza aiuto umano.
Ho sempre amato i film dell’orrore. E’ il primo genere di cui sono stato fan. Durante la mia formazione accademica, ho scoperto dei classici come Nosferatu e Caligari e film trash che noleggiavo nei videoclub. Il mio preferito era Freaks di Tod Browning. Da là sono passato ai film di mostri, che sono sempre stati i miei favoriti. Particolarmente quelli di James Whale o di Jacques Tourneur. Più tardi mi sono interessato al giallo italiano e ai film di genere americani degli anni ’70, con due nomi su tutti: John Carpenter e David Cronenberg. Gli si deve qualcosa: hanno conferito al genere la capacità di riflettere sul mondo”
Quanto all’iraniano-svedese Ali Abbasi, autore di Grans/Border, ha una posizione personale più articolata: “Ho una formazione soprattutto letteraria, e il mio cervello funziona come quello di uno scrittore. E’ così che ho imparato a raccontare storie. Ma c’è voluto un certo tempo prima di rivolgermi verso il cinema: in effetti, quando ero più giovane, ero molto arrogante, e per me i film erano riservati al volgare “grande pubblico”. All’epoca, ero veramente convinto che guardare film fosse un passatempo per quelli che non avevano niente di meglio da fare! Per molti aspetti, il cinema grande pubblico (o anche il cinema d’autore) mi sembrava offrire una visione del mondo ristretta, molto striminzita rispetto alla letteratura. Quello che mi interessa, è guardare la società attraverso il prisma di un universo parallelo, e i film di genere sono un ottimo vettore per raggiungere questo tipo di obiettivo. E’ a questo punto che il cinema diventa veramente stimolante per me: anziché sperimentare la portata drammatica dei miei problemi personali, preferisco vedere le mie riflessioni e le mie pulsioni incarnarsi in un altro corpo e in un altro mondo rispetto al mio. (…) Oggi il cinema di genere è senza dubbio il mercato più facile da conquistare se si ha voglia di evolversi in universi paralleli: è un ‘permesso di bizzarria’, l’autorizzazione a non seguire le regole. Il film di genere può rivestire forme molto differenti: western, fantascienza, e tanto altro ancora. Ci si può astrarre dalle esigenze del mondo reale e dei codici abituali della narrazione drammaturgica. Non amo pormi come un regista impegnato, che parla coraggiosamente dei problemi della nostra società, ma nello stesso tempo non mi considero un fan del cinema dell’orrore, o più in generale del cinema di genere. Quello che mi interessa è quello che passa sotto la superficie delle cose, tutto quello che può influenzare le persone senza che ne sospettino l’esistenza. I film di genere sono anche noti per essere buoni divertissement, e mi piace l’idea che le persone cessino di essere sul chi vive e si distendano. E’ in quel momento che parlare di politica in modo sottile, più sotterraneo, diventa davvero interessante. E’ quello che ho cercato di fare in Shelley e ora in Border”.