“Lazzaro Felice” di Alice Rohrwacher

di Aldo Viganò.

Lazzaro muore precipitando da una rupe. Lo risveglia l’alito di un lupo e, come vuole il suo nome,  risorge. Lui è rimasto identico a se stesso, ma il mondo d’intorno è completamente cambiato. Prima, Lazzaro viveva nel passato, in una società contadina gestita da una crudele marchesa, che gestiva la tenuta come se si fosse ancora ai tempi della mezzadria. Ora, egli si trova in un futuro “post-atomico” dove tutti (eccetto lui) sono invecchiati e hanno difficoltà a sopravvivere. Ma forse, come dice anche Dogman di Matteo Garrone, quel futuro è solo il nostro presente: brutto, sporco e, infine, anche cattivo.

Giunta al suo terzo lungometraggio (dopo Corpo celeste e Le meraviglie), Alice Rohrwacher continua a raccontare il mondo come se fosse una favola, attingendo con molta libertà ai modelli stilistici di quelli che considera i suoi maestri di vita e di cinema: da Ermanno Olmi a Pier Paolo Pasolini, passando attraverso molti altri che come lei amano mescolare la realtà con la fantasia e il culto del buon tempo antico con lo sgomento per il male e le ingiustizie dei tempi attuali.

A merito della trentasettenne regista di madre italiana e padre tedesco, sorella dell’attrice Alba che dei suoi film è interprete, va ascritta soprattutto  la volontà di raccontare il mondo “in grande”, evitando di chiudersi nella quotidianità dei rapporti privati, tanto cari al cinema italiano contemporaneo. Una volontà che non sempre riesce a esprimersi sullo schermo in modo stilisticamente compiuto, ma che ha almeno il merito di affondare le proprie radici nell’amore per la terra ereditato dal padre apicultore in quel di Terni.

Anche in Lazzaro felice, le cose migliori si trovano nella prima parte del film, dove si racconta, sfruttando abilmente l’arido paesaggio,  la vita grama, ma in fin dei conti felice, di quei contadini che sembrano uscire da un film di Olmi. Poi, con l’improvviso salto temporale offerto dalla “resurrezione”, qualcosa non funziona più completamente nel film, che pur anche in questa seconda metà sa consegnare allo schermo alcuni dei suoi momenti migliori.

Questi sono individuabili sia nella rappresentazione dei vecchi ex-contadini, chiusi nella concreta grettezza del proprio presente di baraccati; sia nel personaggio dell’allora giovane marchesino, sofferente di salute e interessato amico di Lazzaro, che ora gli si ripresenta davanti nell’aspetto imbolsito di un nobile ridotto in miseria, con il fisico sfatto del bravo Tommaso Ragno.

L’intento generale, si diceva, è quello della favola. Una favola dall’impronta neorealistica che guarda sovente verso un Miracolo a Milano defraudato dei suoi effetti speciali o un Accattone senza la sacralità di Bach o il pasoliniano culto religioso per le periferie urbane. Una favola, quella di Lazzaro felice, ancora incerta nella ricerca di un proprio autonomo stile e un po’ appesantita da quel finale sacrificale di una rapina in banca, più temuta dagli altri che effettivamente compiuta. Ma anche una favola gestita con un apprezzabile rispetto per gli esseri umani chiamati ad abitarvi: siano essi buoni o egoisti, santi o malvagi.

 

LAZZARO FELICE

(Italia- Svizzera- Francia- Germania, 2018)  Regia, soggetto e sceneggiatura: Alice Rohrwacher – fotografia: Hélène Louvart – scenografia: Emita Frigato – costumi: Loredana Buscemi – montaggio: Nelly Quettier.

interpreti e personaggi: Adriano Tardiolo (Lazzaro), Alba Rohrwacher (Antonia adulta), Nicoletta Braschi (marchesa Alfonsina De Luna), Luca Chikovani (Tancredi ragazzo), Sergi Lopez (Ultimo), Natalino Balasso (Nicola), Tommaso Ragno (Tancredi adulto). distribuzione:  01 Distribution – durata: due ore e 10 minuti

 

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