di Renato Venturelli.
Lars von Trier torna a Cannes sette anni dopo la cacciata, ma continua a essere il regista indesiderato per eccellenza, etichettato come bluff cialtronesco da non pochi cinefili festivalieri, generalmente osteggiato dai media che amano distorcere le sue affermazioni e ignorare la forza delle sue immagini.
Confinato nella quarantena della sezione “fuori concorso” per le sue affermazioni del 2011 sull’arte nazista ma soprattutto su Israele, si presenta stavolta con un ritratto dell’artista come serial killer che viene immancabilmente lanciato come opera di inaudita violenza. Le cronache parlano di fughe in massa degli spettatori e di sale dimezzate per lo shock, ma alla proiezione cui ho assistito non ricordo defezioni – evidenti invece per molti film in concorso, con i larghi vuoti creatisi durante i film di Christophe Honoré, Eva Husson, Yann Gonzales e altri.
E’ anche vero che Von Trier sceglie un tema forte, andando a toccare tutti i punti sensibili della critica perbenista. Il suo protagonista è un serial killer, che rievoca le sue imprese infernali confessandosi a un misterioso interlocutore (Virgilio…), scandendole attraverso cinque di quelli che definisce “incidenti”. Nel primo finisce per sfondare il cranio a una Uma Thurman automobilista elegante borghesissima e insopportabile, che prima lo ferma lungo la strada chiedendo aiuto e poi fa veramente – ironicamente – di tutto per fare una brutta fine. Negli episodi successivi, l’assassino – interpretato da un ottimo Matt Dillon – comincerà a poco a poco a perfezionare le sue strategie e le sue performance per edificare il suo progetto, prima penetrando nell’abitazione di una donna sola, quindi prendendo di mira una madre con i suoi figli, poi tagliando i seni di una ragazza (con la pelle di un seno si farà un portamonete), e così via in un costante crescendo, sempre cercando di costruire una sua casa – una sua opera d’arte – attraverso queste pratiche feroci.
Più dell’idea consueta dell’assassinio come una delle belle arti, a prendere corpo sembra quella rovesciata dell’opera d’arte come assassinio, deliberata incursione nel male, nell’oscuro, in ciò che viene considerato inaccettabile, ma fa parte della natura umana. Tutto viene naturalmente elaborato in modo estremo, complesso e ostentatamente pretenzioso, in un continuo vortice di citazioni che vanno dalle nature morte olandesi ai processi di vinificazione, dall’architetto del nazismo Albert Speer a Dante Alighieri, dall’arte sublime della variazione praticata da Glenn Gould (particolarmente in sintonia con l’arte della serialità e della variazione del serial killer…) alle brevi immagini di Hitler e degli stessi film di von Trier inseriti tra le icone del male.
L’impianto è debordante e prolisso, di sicuro in “The House That Jack Built” il regista prende di petto in modo programmatico la definizione della propria poetica, il rapporto tra estetica ed etica, quello tra l’opera d’arte e la condizione umana, ma gli elementi provocatori e ridondanti fanno parte integrante di questa sua concezione. L’idea di grande bluff che accompagna spesso i giudizi critici su von Trier è programmaticamente presente già all’interno del suo lavoro: e “The House That Jack Built” rilancia inevitabilmente lo scontro tra chi rifiuta in modo radicale von Trier e chi lo ritiene uno degli autori che con più audacia ripensano il cinema nel suo rapporto col mondo.