di Renato Venturelli.
Inaugurata dallo schieratissimo “Donbass” dell’ultra-nazionalista ucraino Sergej Loznitsa, opera al tempo stesso affascinante sul piano cinematografico ed esecrabile sul piano etico, la sezione “Un certain regard” di Cannes 2018 trova una sua prima, piccola rivelazione eccentrica in “Gräns / Borders”, diretto da un 37enne regista danese di origine iraniana, al suo secondo lungometraggio dopo l’horror “Shelley”.
Per l’occasione Abbasi si rifà a un racconto di John Ajvide Lindqvist, l’autore di “Lasciami entrare”, coinvolto anche come sceneggiatore. E la vicenda è a dir poco originale. La protagonista è infatti una donna tozza e dall’aspetto animalesco, ma che ha la straordinaria capacità di “fiutare” letteralmente il male, l’inganno, la paura, l’anomalia nei comportamenti umani. Per questo svolge il suo lavoro ai controlli doganali, dove semplicemente annusando l’aria riesce a identificare passeggeri dall’apparenza irreprensibile ma che nascondono qualcosa nel loro bagaglio.
Non si tratta di un semplice intuito femminile. Il fiuto che la donna possiede fa parte di una sua natura ibrida, ai confini tra essere umano e animale, aspetto che la rende particolarmente attratta dalla foresta in cui vive immersa con la sua casa e dagli animali che la abitano. Finché un giorno ferma alla dogana un uomo altrettanto anomalo e dai modi ancor più deliberatamente selvaggi, che ai controlli dimostrerà di non aver nulla da nascondere, ma che è in realtà un essere interstiziale come lei. La piccola cicatrice che entrambi hanno in fondo alla schiena risulterà la spia di una vera e propria coda che è stata loro tagliata dopo la nascita, e il nuovo arrivato spiegherà alla protagonista come entrambi facciano parte di una stirpe di troll, sempre più ridimensionata dalla presenza umana e sopravvissuta ormai marginalmente nelle foreste nordiche.
Ma la natura interstiziale dei due protagonisti non si limita a questo. Il titolo (Gräns / Borders) allude infatti ai confini intesi sotto diversi aspetti. La donna lavora ai controlli doganali, quindi lungo un tipo di confine sociale, ufficiale. Al tempo stesso, appartiene per sua natura a una condizione di confine dell’umanità, e come il suo partner condivide una particolare sessualità, dove l’uomo è dotato di vagina mentre lei nel momento dell’amplesso dimostrerà di avere un piccolo pene. E lo stesso film si pone lungo una zona di confine tra generi, collocandosi in modo anomalo tra reale e fantastico, secondo quella cifra che era del resto anche tipica di “Lasciami entrare”: senza l’intensità emotiva di quest’ultimo, ma con un’insolita carica di bizzarria e una dolorosa consapevolezza dell’emarginazione cui è condannato chi mantiene rapporti con matrici naturali escluse dalla civiltà. Con la protagonista interpretata da Eva Melander, già vista in “L’ipnotista” di Hallstrom, ma qui difficilmente riconoscibile sotto il trucco. E con un regista di origine mediorientale che non racconta direttamente la propria comunità e il mondo dell’immigrazione, ma che attraverso il prisma dei generi ci parla in fondo delle difficoltà derivanti da una forma di diversità.