Festival di Cannes 2018 – “Gongjak” di Yoon Jong bin

di Renato Venturelli.

Con una selezione ufficiale intasata di film modesti, uno dei titoli migliori di Cannes 2018 va cercato fra le opere fuori concorso, destinate al relax spettacolare delle “séances de minuit”: in questo caso, tra l’altro, con una spy-story sul caso (reale) “Black Venus” ambientata negli anni ’90, ma che finisce per collegarsi alla più stretta attualità odierna.

L’azione prende il via nel 1993, quando un ex-militare sudcoreano viene avvicinato dai servizi segreti e accetta di infiltrarsi come spia nella Corea del Nord per raccogliere informazioni sui programmi nucleari: fingendosi un uomo d’affari, si guadagna la fiducia dei vertici di Pyongyang e arriva a proporre di girare film pubblicitari nel Nord, in modo da insinuare le troupes nei territori più segreti.

Le oltre due ore di racconto stanno addosso al suo protagonista, agli incontri con un funzionario nordcoreano che decide di credere in lui, agli approcci che lo vedono arrivare addirittura a contatto col dittatore. Ma, nonostante l’argomento, sono quasi del tutto assenti le scene d’azione vere e proprie, perché il film punta invece sulla continua tensione, sul suspense derivante dall’incertezza, sulle situazioni complesse che il protagonista si ritrova ad affrontare sia sul piano umano sia su quello politico. Una delle caratteristiche della situazione riguarda del resto il fatto che quest’ultima frontiera della guerra fredda riguarda in realtà un unico popolo, contrapposto dai rispettivi regimi, ma unito da un legame più profondo.

Alla fine, davanti alla scoperta dei rapporti reali tra i due paesi, il protagonista si domanderà se ha avuto un senso tutto ciò che ha fatto e i pericoli che ha corso, fino ad essere ripreso in un piccolo riquadro all’interno di uno schermo divenuto attorno a lui improvvisamente buio. E il regista Yoon Jong-Bin sottolinea quest’aspetto più interiore e noir del suo film, estraneo alle soluzioni action più spettacolari: “Di solito, i film di spionaggio riguardano l’esecuzione di una missione e il conflitto tra l’eroe e un rivale più o meno temibile e sono scanditi da scene d’azione spettacolari. Ma io mi dicevo che attraverso un film di spionaggio si può raccontare una storia interessante sulla natura umana in sé. Le spie devono infiltrare le istanze di potere di un paese per ottenere informazioni, ma per guadagnare la fiducia dell’avversario si ritrovano a poco a poco ad adottare il suo punto di vista. Era la prima volta che adattavo una storia vera, e ho cercato di raccontarla in modo diverso dalla maggior parte dei film di spionaggio o d’azione”.

Di certo, ancora una volta il cinema sudcoreano si conferma una delle garanzie del festival di Cannes, con la sua capacità di proporre film che sono al tempo stesso di qualità autoriale e spettacolare, rivolti al grande pubblico ma con una forte identità espressiva: e in questo caso portano alla conferma di Yoon Jong-bin, 47 anni, al suo quinto film, già autore tra l’altro di “The Unforgiven” (opera d’esordio presentata al “Certain Regard” del 2006) e di “Nameless Gangster: Rules of the Time”.

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