di Renato Venturelli.
E’ la superproduzione coreana dell’anno, il blockbuster storico in costume che promette avventura, denuncia, scontri e massacri, ma al tempo stesso ripropone in modo drammatico e spettacolare una delle pagine più cupe della storia coreana.
La vicenda si colloca durante la seconda guerra mondiale, quando un musicista abituato ad esibirsi insieme alla figlia undicenne viene preso e caricato con la bambina a bordo di una nave. Crede di andare ad esibirsi in Giappone, e invece viene trasportato insieme a migliaia di altri connazionali sull’isola di Hashima, soprannominata “Isola Nave da Guerra” per la sua forma a corazzata, un luogo-simbolo dell’espansione industriale giapponese. Lì verrà mandato sottoterra insieme agli altri coreani per lavorare come schiavi nella miniera di carbone, sottoposti a condizioni disumante, mentre la bambina viene addirittura spedita nel “centro di conforto”, dove le donne coreane sono costrette a prostituirsi ai soldati giapponesi.
Il film denuncia le condizioni di vita dei coreani, ma anche le complicità e i tradimenti al loro interno, ed è stato per questo accolto tra forti polemiche: da una parte chi lo accusa di aver rappresentato i giapponesi solo in termini ferocemente negativi (il Giappone nega quelle condizioni di vita e di lavoro), dall’altra i nazionalisti coreani che lo accusano di aver voluto criticare il comportamento di una parte di connazionali. La denuncia dei fatti storici è resa ancor più attuale dal fatto che l’isola, completamente disabitata da oltre quarant’anni, è stata recentemente dichiarata – tra molte discussioni – patrimonio mondiale dell’Unesco per la funzione fondamentale che ha avuto nell’industrializzazione del Giappone.
Ma l’aspetto storico e di denuncia arriva sullo schermo nelle forme del linguaggio di un blockbuster potente e incalzante, seguendo una serie di luoghi canonici: l’inganno di cui è vittima il protagonista insieme alla figlia, i loro numeri musicali, le condizioni di lavoro in miniera, l’intrigo a base di eroismi e tradimenti, con tanto di colpo di scena, fino alla grande scena d’azione finale, quando i prigionieri coreani cercano di scappare in massa dall’isola e vengono implacabilmente mitragliati e uccisi dai giapponesi.
Il risultato è un film altamente spettacolare, senz’altro condizionato anche dal suo aspetto celebrativo, che nonostante le polemiche scatenate ha poi avuto risultati commerciali ottimi ma inferiori alle aspettative: e sul piano degli incassi è stato superato, sia pur di poco, da un puro thriller-action poliziesco come “The Outlaws” dell’esordiente Kang Yo-on-sung, presentato anche’esso al Far East Film Festival.