Istanbul Film Festival 2018 – Vita d’attrice: Intervista ad Angeliki Papoulia

di Massimo Lechi.

Angeliki Papoulia è uno dei volti più noti e amati del cinema d’autore europeo contemporaneo. Le sue incursioni nell’universo filmico di Yorgos Lanthimos le sono valse la fama di interprete coraggiosa, ai limiti della spericolatezza, capace di incarnare con nervosa fisicità e spiazzante magnetismo quell’oscuro e tagliente surrealismo su cui molto è stato scritto nel corso degli ultimi dieci anni.

Attrice simbolo sia della cosiddetta Weird Wave sia del teatro di ricerca greco, ha saputo replicare sul grande schermo i successi ottenuti sui palcoscenici di tutta Europa, associando il suo nome, oltre che agli exploit a Cannes e Venezia del controverso Lanthimos, agli apprezzati lavori di talentuosi uomini di cinema quali Yannis Economides e Syllas Tzoumerkas. Pochi ruoli finora, ma tutti indimenticabili, e tutti in film di culto: la sboccata Kiki in Matchbox (2002), la Figlia Maggiore in Kynodontas (2009), l’Infermiera sull’orlo di una crisi di nervi in Alps (2011), la spietata Donna Senza Cuore in The Lobster (2015). Fino naturalmente alla Maria di A Blast (2014), il suo ruolo più difficile: una furia, una scheggia impazzita,  una madre e moglie in fuga a bordo di un SUV lanciato a gran velocità lontano dai debiti, dalle fiamme e dagli affetti perduti di una Grecia in rovina.

Ma nonostante una carriera cinematografica in ascesa, è ancora forte il suo legame con la scena e, in particolare, con il Blitz Theatre Group, il collettivo teatrale da lei co-fondato nel 2004 con cui arriverà presto in Italia per presentare l’acclamato Late Night al ventitreesimo Festival delle Colline Torinesi il 5 e il 6 giugno prossimi. In attesa dell’uscita di The Miracle of the Sargasso Sea, nuova collaborazione con Tzoumerkas, che la vedrà nei panni dell’ennesimo personaggio estremo, una donna “molto complicata e autodistruttiva” ancora parzialmente avvolta nel mistero, come del resto tutto il film.

L’ho incontrata alla trentasettesima edizione dell’Istanbul Film Festival, il più importante appuntamento cinematografico della Turchia, dove era impegnata in qualità di giurata della competizione internazionale.

Il grande pubblico ti conosce per i ruoli al cinema, ma è nel mondo del teatro che hai mosso i primi passi. Dimmi della tua formazione.

Dopo le superiori sono andata all’Università di Atene. Studi teatrali: nulla di pratico, solo teoria. Leggevo molte pièce, saggi teorici – cose interessanti, ma non era quello che volevo fare. Mi sono accorta che non mi piaceva per niente. Allora ho dato l’esame d’ammissione a una scuola di recitazione. Solo dopo i quattro anni d’accademia ho finito l’università.

Il grande amore è sempre stato il teatro o ci sei arrivata più tardi?

In realtà il mio primo amore è stata la pittura. Il teatro mi piaceva, ma la pittura di più… Sai, a volte, quando hai sedici o diciassette anni, prendi strane decisioni. Perciò non ho dato esami alla scuola d’arte. E sono diventata attrice.

Il battesimo d’attrice, però, lo hai avuto al cinema nel 2002: Matchbox di Yannis Economides.

Subito dopo la fine della scuola di recitazione. Il primo ruolo è stato a teatro, poi, dopo un anno, Matchbox.

Un cult movie.

Un cult, esatto! Ma lo è diventato col tempo. Era il primo film di Economides, molto molto diverso da qualsiasi altra cosa prodotta fino a quel momento in Grecia. Per me fu un’esperienza molto bella. Provammo quasi sei mesi – che è davvero tanto per un film. E improvvisammo parecchio – altra cosa che mi piace. Ricordo che avevano affittato un appartamento in un sobborgo di Atene e noi andavamo lì a urlare: dopo un po’ i vicini iniziarono a pensare che fossimo una vera famiglia, una famiglia problematica che passava il tempo a litigare… Da un giorno all’altro divenne una cosa reale: entravamo nell’appartamento, ci urlavamo contro e poi ce ne andavamo.

Quindi molta improvvisazione e un contributo degli attori al testo molto forte, giusto?

Sì. Yannis ci spiegava l’idea di base, della scena o della giornata, e noi improvvisavamo e improvvisavamo, aggiungendo parole, togliendone altre…

I vari “malaka” (imprecazione greca ndr.)…

Sì, un sacco di “malaka”, ogni volta. Cercavamo di parlare come i personaggi, come quelle persone. Per noi non era così facile perché si trattava di una classe sociale particolare.

Una volta Economides ha dichiarato che i suoi personaggi erano già in crisi molto prima della Grecia.

Ha assolutamente ragione. Eravamo già in crisi: la Grecia era già in crisi. Per me lo era dal 2004, dalle Olimpiadi. Non riuscivo a capire e condividere tutta quella follia per i giochi, tutto quell’orgoglio, perché allora vivevo una realtà completamente diversa. Perciò, quando il paese è crollato, mi è sembrato naturale.

Te l’aspettavi.

Non ho mai creduto alle Olimpiadi.

Come furono le reazioni al film?

Non ricordo bene. Credo che all’epoca ad alcuni sia piaciuto molto e che altri l’abbiano odiato. E non sono andata alla proiezione al festival di Salonicco.

In sostanza, hai fatto il tuo lavoro e non ti sei resa conto che sarebbe diventato un piccolo fenomeno, l’inizio di qualcosa.

No, non subito. Ma gli anni passavano e si continuava a parlarne: Matchbox e ancora Matchbox… La gente citava le battute per strada, a memoria.

Questo è un filo rosso che attraversa la tua carriera: i giovani registi di lingua greca passano da te e fanno film di culto.

Non so perché! (ride) Tra Matchbox e Kynodontas sono trascorsi diversi anni in cui non ho fatto cinema, perché non potevo, perché lavoravo a teatro… Mi piaceva il teatro, mi piace molto. E se avessi recitato in qualche film, non avrei potuto farlo in scena. Ad Atene si recitava una performance per una stagione intera, per molti mesi – da settembre a maggio. Non avevo tempo. Ho detto tanti no. Ma poi, quando Yorgos Lanthimos mi ha dato la sceneggiatura di Kynodontas, non ho potuto rifiutare.

Nel 2004 hai fondato il Blitz Theatre Group insieme a Christos Passalis e Yorgos Valais. Cosa ti ha spinta a metterti in proprio?

Non ero soddisfatta del modo in cui si faceva teatro ad Atene. Avevo già lavorato con dei registi importanti, che ammiravo, ma col tempo mi ero resa conto che non volevo più collaborare con loro. L’unica cosa che sentivo di voler fare, e che sentivo avesse senso, era fondare una mia compagnia e mettere alla prova le mie idee. Per me questo era un bisogno molto profondo. Così abbiamo deciso insieme di creare una compagnia e provare a fare tutto: dirigere, scrivere i testi, recitare, produrre.

Diventare un collettivo.

Certo. Ed essere alla pari, noi tre membri fondatori. E trovare la nostra strada. Non mi piaceva il modo in cui si lavorava: sempre questa figura del regista dominatore, con gli attori ubbidienti…

Non è così anche il cinema?

Oh no, non sempre! Nel cinema c’è una macchina da presa: c’è qualcun altro. Non sei solo tu e il regista.

C’è un filtro.

Sì, un filtro. Al cinema mi sento molto più libera, mentre a teatro, in quella stessa situazione, mi sentivo oppressa… Poi volevamo raccontare le nostre storie a modo nostro, sviluppando un altro tipo di teatro, nuove forme e nuovi schemi.

Chi erano i vostri punti di riferimento?

Io mi sentivo ispirata da Marina Abramović, e poi dal lavoro di Christoph Marthaler. Ma avevamo anche tanti riferimenti cinematografici, come i film di Cassavetes o di Godard – registi capaci di concepire qualcosa e di crearla in maniera totalmente personale.

Il legame tra la Weird Wave greca e l’avanguardia teatrale è un aspetto, mi pare, finora molto spesso trascurato. Tu hai il Blitz Theatre Group, Ariane Labed ha il Vasistas Theatre Group, Lanthimos ha curato molti video di compagnie di teatro danza e ha diretto delle messinscene piuttosto ardite da Čechov e Paravidino. Siete tutti legati alla scena.

C’è una grande tradizione in Grecia. Mentre non c’è nulla di simile per quanto riguarda il cinema, soprattutto nella formazione: agli attori non viene insegnato a recitare davanti alla macchina da presa. Perciò, in qualche modo, veniamo tutti da lì, e cerchiamo di adattare al cinema quello che abbiamo imparato a teatro.

Nelle tue prime interpretazioni con Lanthimos hai impiegato molto del tuo bagaglio teatrale?

Con Yorgos non troppo. All’inizio è stato difficile adattarmi a quel tipo di recitazione così minimalista – anche se non direi che sono un’attrice molto espressiva nemmeno a teatro. Questo ha richiesto molto lavoro. Dovevo cercare di non esprimere me stessa – in senso buono, intendo. Dovevo… (pausa)

Spegnerti?

No, non spegnermi. Togliere. Mettere da parte tutti gli sforzi inutili, tutte le cose che so fare facilmente. E allo stesso tempo aprirmi a molte possibilità e interpretazioni.

E’ curioso: stai usando le stesse parole che gli attori di cinema usano di solito per descrivere il loro primo difficile ruolo teatrale… Stai descrivendo un salto nel vuoto. Mentre il cinema è raramente un salto perché tutto è controllato.

Forse. Ma non dovrebbe essere sempre tutto controllato, secondo me. Dovrebbe essere questa specie di salto di cui parli. Questo mi piace. Altrimenti, credo, diventa troppo noioso, troppo sicuro.

A teatro metti tutto in discussione?

Ci proviamo, se non altro. A volte siamo più coraggiosi, a volte meno. Dipende.

Anche perché non si può essere sempre troppo coraggiosi, no?

Ogni volta? (sorride) Con certe performance capisci cosa fare subito e tutto viene facilmente, con altre è molto difficile. Non c’è una regola. Ogni performance è una nuova situazione, un nuovo inizio. E’ un procedimento molto stancante. Con Yorgos c’è voluto tempo a capire cosa volesse, cosa gli piacesse, quale fosse la sua visione artistica. Ma alla fine credo di essere riuscita a entrare – anche perché il suo modo di vedere le cose mi piace molto. Ogni volta lui crea un mondo e ogni volta cerco di adattarmici, a questo amatissimo mondo.

Amatissimo?

(ride) Sì, per me è amatissimo. So che molta gente pensa sia bizzarro, ma io non lo credo.

Che reazione hai quando senti parlare di Weird Wave?

Penso sia un cliché. Capisco l’esigenza di dover mettere etichette, ma perché “weird” (strano/a ndr.)? Se la vita fosse un film, non sarebbe un film neorealista. La vita è molto surreale. Le cose che succedono nei film di Yorgos capitano anche nella vita. Gli elementi sono tutti lì: surrealismo, humor, cupezza. Questo è il modo in cui la concepisco, in cui la vedo.

Finora hai fatto pochi film, ma tutti molto incisivi. Se osservo le tue interpretazioni vedo da una parte ruoli melodrammatici in film realistici e dall’altra performance stilizzatissime in film d’autore estremi. Questa doppia…

Doppia vita? (ride) Be’, non ho fatto molti film perché per me è difficile accettare una parte se non mi piace la sceneggiatura. Devo trovare qualcosa di molto interessante, che mi attragga o che abbia a che fare con il personaggio o con gli altri collaboratori. Qualcosa di rischioso, di avventuroso, in grado di portarmi fuori dalla mia comfort zone. Mi piace potermi adattare ed entrare in sintonia con un regista. E cerco sempre di dare, di offrire con generosità le mie capacità.

I registi con cui hai lavorato ti hanno sottoposta a delle prove toste: si percepisce sempre un’energia fortissima nei tuoi personaggi e in te. In Kynodontas e Alps Lanthimos porta la tua instabilità emotiva e psicologica fino al punto di rottura in maniera addirittura plateale, in due scene di ballo memorabili. E’ tutto l’opposto, mi sembra, della recitazione quasi robotica che oggi viene rimproverata al cinema greco.

Sono totalmente d’accordo con te. Yorgos non ha mai voluto che la nostra recitazione fosse robotica. C’è sempre una tensione sotto, perché altrimenti non ha alcun senso, altrimenti non vedi una persona ma un pupazzo – e gli attori nei suoi film non sono pupazzi. Per essere in grado di mettere da parte le tue certezze devi avere quel tipo di energia sottile e nascosta che mantiene la tua presenza intensa, viva. E devi essere molto reattivo sul momento. E’ più una questione di istinto. La mia recitazione nei suoi film era una sorta di reazione istintiva alle situazioni, con però, sì, in più anche un certo controllo… Ha senso quello che ho detto?

Certo, ce l’ha. Mi chiedo tuttavia come tu riesca davvero a controllare quest’energia mentre giri un film. Come tu possa farlo sul palcoscenico, lo immagino facilmente. Ma sul set, dove ogni reazione  è inevitabilmente a comando?

(lunga pausa) Restando in silenzio. Cerco di tenerla molto bassa e di non sprecarla mentre non sto girando, così che, quando arriva il momento, può esserci l’esplosione. Va preservata.

Com’è stato interpretare Maria in A Blast?

E’ stato difficilissimo. Abbiamo provato per sei mesi, e c’erano così tante scene con così tanti attori e così tanti rapporti – con il padre, la madre, il marito, la sorella… Maria è una donna che abbandona tutti e che vuole cercare di vivere in maniera diversa, di ricostruire se stessa e la propria vita. Al cuore del personaggio, credo, c’è il tentativo di fare i conti con la perdita – cosa che è molto dolorosa, per chiunque. Ho lavorato su questo sentimento, su questa situazione: perdere se stessi o perdere i propri figli, il proprio marito, il proprio paese… Un lavoro duro.

Il tuo personaggio mi ha sempre fatto pensare a Medea, e il film di Tzoumerkas a una sorta di grande tragedia metaforica, ma senza nemmeno l’ombra della catarsi.

Be’, in teoria dovrebbe esserci alla fine. Nell’ultima sequenza, dopo l’incidente, scendo dalla macchina e inizio a camminare: quello dovrebbe essere un finale positivo – anche se non proprio una catarsi. Maria non sa più dove andare, ma è una buona cosa perché almeno c’è una qualche possibilità aperta dinnanzi a lei.

So che ti sei ripromessa di fare più film in futuro. Come mai questo desiderio?

Ho fatto tanto teatro, davvero tanto… E ovunque: negli ultimi sei anni, con la mia compagnia, abbiamo viaggiato per tutta Europa. Oggi però il cinema mi sembra più avventuroso, mentre invece sento di essere un pochino stufa della scena.

La recitazione è una ricerca per te?

Lo è… (pausa)

E di cosa? Cosa cerchi quando inizi a scrivere o accetti un ruolo?

Di dimenticare la parte di me che conosco o che penso di conoscere, che trovo noiosa e con cui sono cresciuta. Di trovare qualcos’altro, anche. Di liberarmi da tutto ciò che mi è familiare.

Cerchi una catarsi?

In un certo senso. Ma “catarsi” per noi greci è una parola molto pesante, tragica! Direi che per me la recitazione è un’esperienza liberatoria, un modo per scappare dalla realtà, dalla vita quotidiana, dalla Angeliki che non mi piace… E poi è bello essere creativi: per me è stata una necessità sin da giovanissima. Non potrei vivere in un altro modo. Se non potessi creare o credere in qualcosa, non avrebbe senso.

La dannazione dell’artista!

No “dannazione”! Non penso di essere dannata… Penso di essere divertente. (ride)

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