di Furio Fossati.
Se non provi paura, non hai timore mentre stai realizzando un film, probabilmente non riuscirai a donare emozioni nemmeno agli spettatori.
Questo è il primo segreto, secondo Guillermo Del Toro, per creare qualcosa che possa interessare e rimanere nella mente dello spettatore.
Il vincitore di due premi Oscar era presente alla trentatreesima edizione del FICG, Festival Internacional de Cine en Guadalajara, dove l’Università gli ha intitolato una sala ipertecnologica che lui ha inaugurato in queesti giorni.
Autentico showman, ha animato masterclass e conferenza stampa non risparmiandosi e rispondendo in maniera sempre approfondita a qualsiasi domanda.
– Contento per l’assegnazione degli Oscar a La forma dell’acqua (2017)?
Certamente, è davvero un’opera corale in cui hanno grande importanza tutti gli elementi, dalla foto al montaggio, dalla scenografia ai costumi, dalla colonna sonora a tutto il cast artistico. Il compito del direttore è quello di assemblare ogni cosa per creare un’opera interessante.
– C’è una formula per creare il film di successo?
Ritengo che il cinema non sia chimica tra vari elementi ma alchimia, una magia che si ripete ogni volta che si realizza qualcosa che possa considerarsi valida.
– Pensa che sia il regista il responsabile di un’opera cinematografica?
Sì e no. Bisogna discutere tutti assieme per riuscire ad ottenere i risultati desiderati, ma è poi uno solo che prende le decisioni: è un onere e un piacere a cui è difficile rinunciare. Nella mia posizione c’è sicuramente un grande vantaggio: se ci sono diversità di opinioni… alla fine io ho ragione.
Affabulatore, istrione, showman strappa la risata pur fornendo elementi molto seri sul suo lavoro: molte battute, tanto coinvolgimento del pubblico presente.
– Lei è molto amico con altri registi messicani: tra di Voi non c’è competizione?
L’unico che possa capire i problemi di un direttore è un altro direttore, ed è bello sapere di essere amici e di potersi fidare uno dell’altro. E poi… meglio essere ben visto da chi è in grado di svelare gli errori che tu potresti avere commesso.
– In questo suo ultimo film dà molta importanza alle tonalità di colore.
Direi un po’ in tutti i miei lavori, ma qui forse si nota di più perché è preponderante l’azzurro che porta a pensare all’acqua anche quando questa non è presente. Ma bisogna utilizzare le potenzialità di tutti i colori: ad esempio il rosso fa pensare all’amore, il verde al futuro unito alla speranza.
– Quale è il cocktail che vorrebbe ottenere.
Vorrei che il film fosse come una musica che ascolti quando guidi e che riesce a rimanere nella tua mente anche se, per alcuni momenti, non le dedichi attenzione. Immagini, luci, colori aiutano a realizzare questo mio sogno e cerco sempre di dare loro il giusto spazio.
– Ha avuto molta importanza la scelta del cast?
Fondamentale, assolutamente fondamentale. La sceneggiatura è stata pensata direi quasi su ogni attore, scelto perché lo identificavo con l’idea che avevo del personaggio. Noti o meno noti, accomunati dal essere… quelli giusti che avevano piacere di lavorare assieme.
– Nella fase realizzativa lascia spazio ad un minimo di improvvisazione?
Assolutamente no, soprattutto all’interno di un progetto così complesso come questo. Ognuno dei responsabili di un settore, che sia musica o fotografia o scenografia o altro, ha una copia della sceneggiatura pensata specificatamente per lui, in cui preciso cosa desidero, dalla posizione delle macchine da presa a come la scenografia debba essere sistemata. Facendo così, il mio compito quando giriamo è solo quello di ottenere un buon risultato finale senza pensare a particolari tecnici che potrebbero farmi perdere la concentrazione.
– Vi confrontate durante la lavorazione?
Certo, e direi spesso. Ma, ripeto, il vantaggio di essere il direttore è che, se ci sono visioni dissimili, io ho ragione. Comunque, lavoro sempre con collaboratori che conosco e mi conoscono molto bene: questo limita assolutamente la possibilità di avere scontri durante il percorso della nascita del film.
– Cosa la fa arrabbiare di più?
Che mi dicano che i miei film non rispettino i canoni nordamericani: ma io sono fiero di questa diversità, difendo la mia identità di autore messicano. Noi abbiamo ancora la mentalità del risparmio, la voglia di utilizzare anche sistemi tradizionali per ottenere risultati visivi affascinanti. Il film è costato 19,3 milioni di dollari: lo avesse girato un cineasta statunitense, probabilmente ne sarebbero occorsi almeno 70.
– Ha risparmiato anche sugli effetti visivi?
Assolutamente sì. Ho una buona conoscenza degli effetti utilizzati in teatro, dei rulli in grado di fare ‘vedere’ l’acqua che non c’è. Molte scene ambientate nell’acqua sono state girate al asciutto e non sono state rimaneggiate in fase post produttiva da tecnici del digitale. C’era l’esigenza di non spendere troppo ma anche il desiderio di onorare i grandi, da Georges Méliès in avanti, che con poco riuscivano a farci sognare.
L’unica cosa su cui non ho risparmiato – pagando di tasca mia – è stato lo studio per trovare il giusto aspetto alla creatura, che doveva avere una buona commistione tra umano e misteriosamente indefinibile. Per tre anni, con la collaborazione di vari scultori, abbiamo provato e riprovato, e credo che il risultato finale sia stato buono.
Le labbra, umane ma anche misteriosamente indescrivibili, e gli occhi posizionati in maniera tale da esprimere a seconda delle esigenze paura, amore, violenza, curiosità, odio hanno richiesto veramente tanto impegno da parte di tutti.
– Oltre alla paura, quale ritiene possa essere altro ingrediente indispensabile per ottenere buoni risultati?
Sicuramente la rabbia, rabbia che crea determinazione e permette di andare avanti anche di fronte a ostacoli che potrebbero sembrare insuperabili.
Questo lavoro non è fatto per chi voglia una vita tranquilla e rasserenante. Lo stress che viviamo è il carburante per tante idee vincenti.
– Classica domanda di cui si conosce quasi sempre la risposta: è contento per gli Oscar?
Certo, e ancora di più che sia capitato per un film che ho amato e voluto intensamente. Poteva già essere arrivato per altri titoli ritenuti da critica e pubblico buoni. Ma averlo vinto a 53 anni ha più vantaggi che svantaggi. Lo avessi ottenuto prima probabilmente mi avrebbe condizionato e limitato in scelte artistiche, me lo avessero assegnato quando ero vecchio mi sarebbe sembrato più un omaggio ad una carriera che non il premio per un film realmente interessante. Detto questo… per un artista è sempre il momento giusto per vincere un Oscar…
– E’ legato alla Sua città natale?
Non potrebbe essere altrimenti, e spero di averlo dimostrato più coi fatti che con le parole. Qui ci sono delle eccellenze sia nel cinema che nelle altre forme d’espressione e d’arte, ma c’è una forma espressiva che per adesso non ha avuto la giusta considerazione. Parlo dell’animazione in cui, oltreché bravissimi tecnici, può contare su autori assolutamente originali. Il mio impegno è quello di fare conoscere questo microcosmo a chi lo ignora, di aiutare a trovare fondi per girare film sempre migliori.