di Aldo Viganò.
Confesso di essermi annoiato per più di due ore. Colpa mia? Forse. Ma in fin dei conti qualcosa di simile mi era già accaduto con “Magnolia” e “Il petroliere” o con gli altri film di Anderson che ho visto (e dimenticato). Perché? Prima di mettere nel “dimenticatoio” anche “Il filo nascosto”, provo a razionalizzare questo sentimento di noia con il fresco ricordo del film che, come si sa, racconta sullo sfondo dell’Inghilterra degli anni Cinquanta la parabola esistenziale di un grande sarto internazionale, alle prese con una sorella (Lesley Manville) che vi assiste impassibile e con una giovane modella-musa-amante-moglie (Vicky Kneps) da lui incontrata nel ruolo di cameriera in un hotel di provincia e di cui diventa poco a poco vittima più o meno consapevole.
In sintesi, una libera riproposta del tema dello “schiavo d’amore”, gestito però con assoluta freddezza e avviato verso un finale beffardo. Un melodramma sociale, cioè. Ma messo in scena senza pathos. Avvolto come è dalla voce fuori campo della giovane “parvenu” che, come sul lettino dello psicanalista, evoca con gelida determinazione le tappe della sua conquista del potere.
Una freddezza, quella dell’ottavo lungometraggio del non ancora cinquantenne regista statunitense, che sullo schermo si concretizza in inquadrature pensose e in personaggi che vivono soprattutto in questa silenziosa lentezza, con il risultato che il film finisce con l’essere l’illustrazione di un pensiero piuttosto che la messa in scena di azioni e di comportamenti.
Da qui, appunto, nasce la noia. Perché le immagini non sembrano avere mai la funzione di costruire e di portare avanti la storia, ma rimangono come rarefatte, sino al punto di essere raggelate nel ruolo di metafore di altro da sé. Con il risultato che ciò che accade sullo schermo (e in teoria non poco: innamoramento, sopraffazione intellettuale, ribellione silenziosa, funghi velenosi serviti a tavola, sino al rovesciamento dei ruoli) rinvia sempre a qualche cosa di esterno alle immagini, suggerendo quelle ipotesi di pensieri profondi e metaforiche possibilità interpretative che hanno alimentato i tanti giudizi positivi con i quali è stato per lo più accolto “Il filo nascosto”, portandolo sino alle sei candidature all’Oscar e all’incoronazione come uno dei migliori dieci film dell’anno.
Un film ora letto come un’allegoria della lotta di classe e ora visto come un’intimidatoria opera d’autore che attraverso il personaggio del grande sarto (cui Daniel Day-Lewis presta la sua già collaudata maschera pensosa) di fatto racconta in modo alquanto narcisistico il travaglio creativo dell’artista (e quindi anche del suo alquanto presuntuoso regista). Ma come la mettiamo con la noia? E il cinema dov’è? Cosa ne resta, se sullo schermo poi si vedono solo i volti pensosi dei personaggi e non le cause dei loro pensieri o la concretezza umana del loro pensare?
Si dirà che la noia non è una categoria estetica, ma solo un opinabile sentimento soggettivo. Verissimo. Ma se si toglie la loro ostentata concettualità che cosa resta infine nelle immagini di “Il filo nascosto”? Certo la efficace presenza delle due attrici che fanno corona a un Daniel Day-Lewis alquanto distratto, che tra ago e forbici appare qui sovente, anche se forse senza colpa, la parodia del grande attore. Quindi c’è quella esibita predilezione, un po’ fine a se stessa, di Paul Thomas Anderson per i complicati piani sequenza, evidenziati soprattutto nell’andare e venire di dipendenti e di clienti dalle scale dell’atelier. Poi… non riesco a trovare null’altro, se non la presunzione intellettuale di un regista che sembra sempre più convinto, anche perché glielo hanno detto troppe volte, di essere l’erede di Kubrick o di altri autori paludati. Ma il cinema, quello vero, resta infine, inesorabilmente, lontano dallo schermo. Senza che troppi sembrano essere oggi capaci di accorgersene.
IL FILO NASCOSTO
(Phantom Thread, USA, 2017) regia e sceneggiatura: Paul Thomas Anderson – musica: Jonny Greenwood – scenografia: Mark Tildesley – costumi: Mark Bridges – montaggio: Dylan Tichenor. interpreti e personaggi: Daniel Day-Lewis (Reynolds Woodcock), Lesley Manville (Cyril Woodcock), Vicky Krieps (Alma Elson), Brian Gleeson (dott. Robert Hardy), Harriet Sansom Harris (Barbara Rose), Sue Clark (Biddy), Joan Brown (Nana), Camilla Rutherford (Johanna), Gina McKee (contessa Henrietta Harding). distribuzione: Universal Pictures – durata: due ore e 10 minuti
D’accordo con Viganò,come al solito. Il film rimane alla superficie,malgrado il virtuosismo nel descrivere i merletti ( e l’arsenico). Ci sarebbe voluto Chabrol (o Bunuel) e almeno Isabelle Huppert nel ruolo principale ,se non Gene Tierney.
D’accordo anche nel ridimensionare Guadagnino ,davvero un Bertolucci dei poveri.