di Aldo Viganò.
Grande protagonista del teatro inglese contemporaneo, definito da alcuni il Quentin Tarantino del palcoscenico per la sorprendente originalità dei suoi personaggi e per la sintetica forza dei dialoghi affidati alla recitazione degli attori, il londinese di origine irlandese Martin McDonagh (classe 1970) ha trasferito sul grande schermo le sue qualità drammaturgiche, andando progressivamente alla ricerca anche di un linguaggio visivo che pur poco gli appartiene, ma di cui va con tenacia sperimentando le possibilità espressive.
Ed ecco che dopo l’eccentrica storia di due gangster pasticcioni spediti dal loro capo inglese dall’altra parte della Manica (“In Bruges”) e dopo una scatenata operazione simil-western (“7 psicopatici”), dal sapore vagamente autobiografico, McDonagh ritorna al cinema (senza però aver mai abbandonato il teatro: lo scorso anno è andato in scena “Hangmen” al Royal Court di Londra ed è già annunciata per la fine 2018 al Bridge Theatre una sua nuova commedia) con un film ambientato nel profondo Midwest statunitense improvvisamente risvegliato dal suo trantran sonnacchioso dall’affissione lungo una strada provinciale di tre grandi manifesti che accusano la polizia locale di non aver fatto nulla per scoprire i colpevoli dello stupro e dell’omicidio di una ragazza, avvenuti sei mesi prima.
L’artefice di questa eccentrica iniziativa è la madre della ragazza (interpretata da Frances McDormand, già musa dei Coen e moglie di Joel): una donna di mezza età del posto che gestisce un negozietto in città, è separata dal marito, il quale si è presa una giovane amante che lavora nel circo, e vive ora solo in compagnia dell’altro figlio adolescente. Mentre destinatario degli interrogativi contenuti in quei manifesti è lo sceriffo Woody Harrelson, che pur non ha mai voluto chiudere il caso, anche se ora (alle prese con un cancro) tollera che sia il suo vice (Sam Rockwell), razzista e violento, a cercare di intimidire la donna e di far tacere con la forza ogni accusa alle locali forze dell’ordine.
È su questo schema narrativo, punteggiato da tanti bei personaggi di contorno (dalla mamma del vicesceriffo al figlio della protagonista), che Martin McDonagh costruisce una sceneggiatura molto precisa ed elaborata, che ricorda un poco le sue opere drammaturgiche migliori per la capacità di trascorrere velocemente da un genere all’altro, dal comico al tragico e viceversa, attraverso il sapiente uso dei passaggi di scena e soprattutto della funzionalità narrativa dei dialoghi, capaci sovente di sorprendere anche solo con una singola battuta.
Una sceneggiatura, quella scritta da McDonagh per “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”, che egli affida poi alla recitazione degli attori, sempre ben diretti, tra i quali spicca la McDormand, splendida nell’uso del corpo e dei silenzi, ma fanno ottima figura anche tutti gli altri. Dal dolente sceriffo Harrelson, che “eroicamente”sceglie di suicidarsi nel proprio ranch, lasciando tre raffinate lettere di scusa: rispettivamente destinate alla moglie, alla sua “nemica” e al suo vice manesco. Ai toni di una recitazione un po’ actor’s studio esibita da Sam Rockwell, il quale dapprima dà libero sfogo alle ataviche radici delle sue pulsioni razziste, ma infine riesce a trovare un terreno di comunicazione umana anche con l’odiata artefice di quella affissione da lui tanto osteggiata.
È proprio la recitazione degli attori, insieme con l’articolata e complessa umanità di tutti i personaggi, ciò che fa di “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” uno dei film più interessanti della stagione. Un film meritevole di essere visto e rivisto (magari in lingua originale), al quale è facile perdonare qualche sciattezza visiva e la mancanza di un uso del mezzo cinematografico pienamente corrispondente alla complessità narrativa e concettuale così ben argomentata e gestita in fase di scrittura drammaturgica. Ma la scoperta dell’autonoma forza della scrittura per immagini, si sa, è qualcosa che si apprende film dopo film. E il non ancora cinquantenne McDonald possiede tutte le qualità per esprimere compiutamente anche sul grande schermo il proprio talento. Basta che sia lui per primo a rendersene conto. Per ora, è già più che sufficiente aver potuto assistere a una delle opere più inventive e meglio scritte negli ultimi anni.
TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI
(Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, USA e GB, 2017) Regia e sceneggiatura: Martin McDonagh – fotografia: Ben Davis – musica: Carter Burwell – scenografia: Inbal Weinberg – costumi: Melissa Toth – montaggio: Jon Gregory. Interpreti: Frances McDormand (Mildred Hayes), Woody Harrelson (sceriffo Bill Willoughby), Sam Rockwell (vicesceriffo Jason Dixon), John Hawkes (Charlie Hayes), Peter Dinklage (James), Kathryn Newton (Angela Hyes), Lucas Hedges (Robbie Hayes), Abbie Cornish (Anne Willoughby), Sandy Martin (Mama Dixon). distribuzione:20th Century Fox – durata: un’ora e 55 minuti