James Lee Burke

di Pasquale Pede.

Resta inspiegabile che il cinema abbia prestato così scarsa attenzione a uno dei più significativi autori di crime degli ultimi decenni, James Lee Burke. Se si eccettua il trascurabile Omicidio a New Orleans (1996, P. Joanou) interpretato dal bolso Alec Baldwin, l’unico film degno di interesse tratto da un suo romanzo  resta L’occhio del ciclone-In the Electric Mist (2009) di Bertrand Tavernier. E’ nota la passione del cineasta francese per molti aspetti della cultura americana, quindi non stupisce che proprio lui sia stato attratto dall’opera di Burke. Il film non delude chi abbia amato il romanzo omonimo – a suo tempo pubblicato nel Giallo Mondadori – anche se ne riduce di molto la complessità della trama, impossibile da ridurre nelle due ore di una pellicola. Perfetta la scelta dei protagonisti: Tommy Lee Jones, che presta la sua faccia segnata come la corteccia di un albero centenario al personaggio del detective, e il vulcanico John Goodman nel ruolo del vilain di turno. Il fascino della storia è comunque mantenuto. Le riprese di un film nelle paludi della Louisiana durante le quali si verificano strani incidenti fino a un omicidio, un fatto di sangue ai danni di un nero che riemerge dal passato, l’atroce fine di un ragazza un po’ sbandata si mescolano nell’indagine a una dimensione onirica in cui il protagonista rivive scene della Guerra di Secessione accadute nei medesimi luoghi, come se vi avesse partecipato. Tavernier riesce a reinterpretare l’atmosfera tipica dello scrittore, la confusione fra sogno e realtà, fra passato e presente, la dolente moralità, l’amore per la sua terra con la sua natura primordiale e la sua musica (si noti la presenza in un cameo del grande bluesman Buddy Guy), come d’altronde già aveva fatto, prendendosi maggiori libertà, con Colpo di spugna di Jim Thompson.

E’ un titolo che passa spesso in tv, e vale senz’altro la pena di ripescarlo.

Dopodiché nulla. Non resterebbe che affidarsi a una filmografia immaginaria e sognare cosa avrebbero potuto fare dei romanzi di Burke cineasti dalle spalle robuste come, che so, Michael Mann, i fratelli Coen, James Gray o, perché no, il vecchio Clint. Ma tant’è, sinora.

Ed è un peccato, perché nel ristretto gruppo di scrittori che negli anni 80 agitò le acque un po’ stagnanti della crime novel statunitense, James Lee Burke è l’autore che esprime la più sentita vena epica.

Nel ciclo di romanzi dedicato al detective Dave Robichaux inaugurato nell’87 con Pioggia al neon e fin qui arrivato al ventesimo volume, Burke dipana una saga noir dai colori accesi e dai toni potenti, nella quale si dispiega un titanico scontro fra Bene e Male sullo sfondo lussureggiante delle paludi e delle città della Louisiana. Il tono dei romanzi attinge a rimandi biblici e shakespeariani, e si avvale di una scrittura densa, dal ritmo ampio e fluente, in cui si alternano dialoghi contundenti e sarcastici, d’obbligo nell’hard boiled, con liriche descrizioni della selvaggia natura di quei territori, citazioni colte e riflessioni profonde sullo stato morale della società statunitense.

Non ci si stupisca per il ricorso a giudizi così impegnativi.

Burke è uno scrittore che non ama le mezze misure e non ha il minimo timore di confrontarsi coi temi “alti”. Colpa e redenzione, peccato e dannazione, l’inspiegabilità del male e volontà di resistervi sono i poli dialettici, espliciti, su cui poggiano le sue storie. E il confronto non può che essere totale, coinvolgere i partecipanti fin dentro gli aspetti più intimi della loro esistenza, e tradursi in scontro fisico all’ultimo sangue.

L’unico del gruppo che gli si può accostare in questo senso è James Crumley, suo amico e compagno di bevute nella vita, anche lui amante dei personaggi bigger than life, ma Burke rimane l’autore che incarna al meglio la concezione del noir come grande epopea morale dei nostri giorni.

In questo scontro senza quartiere gli eroi del bene sono Dave Robicheaux, ex combattente in Vietnam e detective a New Iberia (area di New Orleans) e il suo compagno, detective privato, Clete Purcel: “Noi siamo i buoni, vero Dave?” è una sua tipica battuta prima di buttarsi allo sbaraglio nello showdown finale.

Si tratta di cavalieri senza paura, certo, ma non senza macchia. Robicheaux, pur integerrimo, è un ex alcolista propenso alla violenza e avvelenato dagli orrori di cui è stato testimone nel Vietnam e nel lavoro, tormentato da un senso di colpa talmente profondo che sembra caricargli sulle spalle il peso di tutte le nefandezze con cui è costretto a confrontarsi. Clete è il suo alter ego, come d’uso nei recenti autori americani, e in quanto suo doppio ne rispecchia portandole all’estremo tutte le caratteristiche. E’ un colosso sul quintale e mezzo avido di alcol e cibi spaccafegato, roso da tendenze autodistruttive, pronto a farsi spezzare il cuore dal gentil sesso e assolutamente privo di paura, ma anche del minimo buon senso. Di fedeltà inossidabile alll’amico, tende a cacciarsi nei peggiori guai con una scrollata di spalle. Quando perde la pazienza e si scatena le sue bagarre sono di proporzioni omeriche.

Averli definiti eroi non significa che siano personaggi monodimensionali, tutti d’un pezzo. Al contrario, nei romanzi emerge soprattutto il loro lato oscuro, che li tiene sempre in bilico sull’orlo della caduta. Queste contraddizioni rendono più intensa la lotta morale che i due si trovano a sostenere, e più complessa e sfaccettata la loro personalità.

Il territorio d’azione dei due cavalieri è, come si è detto, la Louisiana. E questa collocazione riveste un’importanza essenziale nell’economia della narrazione.  Burke si situa consapepovolmente nella tradizione letteraria del sud degli Stati Uniti, e si erge a cantore della Louisiana come terra un tempo benedetta da Dio. L’influsso di Faulkner, O’Connors, McCulloughs o T. Williams si evidenzia nei riferimenti bilici, nel ricorso al simbolismo, nell’esacerbazione delle passioni e nell’importanza del lussurreggiante sfondo naturale non solo come cornice, ma come controcanto e matrice delle vicende. Il clima torrido, le sconfinate piantagioni, le paludi insidiose e i maestosi corsi d’acqua sono protagonisti delle storie a pari titolo dei personaggi, costituiscono un retroterra selvaggio e primordiale delle storie, diventando un vero e proprio orizzonte mitico. L’elemento urbano invece, così tipico del noir, perde centralità e ha un posto del tutto secondario.

L’ambientazione meridionale significa anche tutto ciò che caratterizza la storia e la cultura di quei territori.

Il peccato originale dello schiavismo innanzitutto, col suo retaggio tutt’altro che risolto di razzismo e crudeltà che inquina i rapporti fra le razze, rendendoli intrisi di rancore e senso di colpa. Poi l’eredità antica della Guerra di Secessione e della sconfitta, nella cui prospettiva la Louisiana simboleggia un giardino dell’Eden corrotto dalla rapacità del capitalismo nordista. Come tessuto di sfondo infine il crogiuolo culturale tipico di queste regioni, dove convivono razze e culture più varie: Accadiani, Cajun, Indiani, Neri e immigrati di tutti i tipi, in una mescolanza di sapori, odori, musiche, tradizioni e credenze simile a una primordiale Babele.  Questo Sud è un paesaggio primordiale e originario, carico di orrori e di incorruttibile bellezza.

Il Male è incarnato dall’organizzazione sociale contemporanea, dipinta in maniera apocalittica come il regno dell’avidità e della rapacità capitalista, della corruzione generalizzata e della commistione cancerosa fra malavita organizzata e istituzioni ufficiali. Oltre a una decisa denuncia sociale, questa visione comporta una concezione nostalgica di un passato idilliaco, simboleggiato dal rapporto non rapace con la natura, da rapporti umani basati sul rispetto degli indifesi, sul coraggio e la nobiltà d’animo individuali, in cui tutto ciò che viene da fuori si manifesta come corruzione irrimediabile. Ideologicamente può sembrare una concezione reazionaria, ma non è così. Burke è un autore esplicitamente liberal, come si evince da tanti riferimenti sparsi nei romanzi. Piuttosto, questa nostalgia di un’era vergine da avidità di denaro e potere va vista come una contrapposizione mitica, più che storica, in cui l’aspirazione a un mondo più giusto viene proiettata in un passato idealizzato, a un’America degli ultimi proletaria e contadina identificata coi valori Confederati. Si tratta, a ben vedere, di una particolare declinazione della classica mitologia della Frontiera Perduta in cui in luogo del West incontaminato troviamo l’innocenza del Sud rurale.

I volti concreti che assumono le forze del male sono dunque, quasi sempre, quelli del potere economico o criminale: miliardari arroganti e senza scrupoli, industriali e possidenti rapaci e corrotti, mafiosi che prosperano con la sopraffazione e la violenza, politicanti collusi e poliziotti senza scrupoli. Su questo panorama Burke inserisce tuttavia delle figure di criminali isolati, dei serial killer diabolici e crudeli, i “predatori” per antonomasia, descritti come figure quasi soprannaturali, vere e proprie incarnazioni del Male assoluto, che arrivano a minacciare i protagonisti nella loro sfera più intima.

Le storie sono lunghe, complesse, avvincenti e con personaggi sempre accuratamente delineati, ma quello che conta innanzitutto è l’atmosfera generale che Burke riesce a creare sulla pagina, oscura e drammatica, e il tono insieme elegiaco e denso di tensione che da esse si sprigiona.

Difficile peraltro citare qualche titolo in particolare in una produzione che conta una ventina di titoli tutti di livello costante: potete andare sul sicuro in ogni caso. I primi romanzi furono pubblicati nel Giallo Mondadori, quindi sono reperibili nell’usato. Gli altri da Meridiano Zero, Fanucci e da ultimo da 1 Rosso. Forse, se proprio bisogna scegliere, si consiglia proprio il titolo adattato da Tavernier, L’occhio del ciclone, perché è quello in cui la commistione fra la dimensione reale e quella onirica è spinta alle estreme conseguenze. Robichaux, in crisi nella sua inchiesta, si trova a dialogare coi soldati confederati che hanno combattuto nei luoghi della vicenda, e non viene chiarito se questa sorta di “reincarnazione” sia frutto di un’alterazione della coscienza o avvenga effettivamente. Il risultato è molto suggestivo, e accentua quella sorta di patriottismo nostalgico tipica del personaggio.

Due parole sulla biografia dello scrittore.

James Lee Burke nasce a Huston, Texas, nel 1936, ma cresce in Louisiana. Dopo gli studi insegna all’università di Lafayette e del Montana. Fa di versi mestieri, fra i quali l’assistente sociale, ma la sua vocazione è la scrittura. I suoi primi romanzi però vengono rifiutati da molti editori finché, su consiglio di C. Willeford, non tenta con un poliziesco, Pioggia al neon, primo romanzo con Robicheaux, e riesce a sfondare. La consacrazione avviene con Black Cherry Blues, che nel 90 vince L’Edgar Award. Autore molto prolifico, oltre che la saga con Robichaux, produce anche romanzi e racconti non di genere, fra cui un western, Two for Texas, e una saga dedicata alla famiglia Holland del Texas, il cui capostipite combatté a Alamo, che si svolge dall’800 ai giorni attuali.

Una curiosità: la figlia di Burke, che si chiama Alafair come la figlia adottiva di Robichaux, si dedica anch’essa al noir e ha pubblicato numerosi romanzi, alcuni dei quali tradotti in italiano.

 

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