di Renato Venturelli.
Doveva essere parte di un film sui “Frammenti di un discorso amoroso” di Roland Barthes, ma sullo schermo “quella zona confusionale in cui il linguaggio è insieme troppo e troppo poco” diventa tante altre cose: soprattutto, diventa un film sul rapporto tra la regia di Claire Denis e la presenza sempre intensa di Juliette Binoche.
Accolto già al festival di Cannes come il gran ritorno della regista dopo qualche prova sottotono, riproposto adesso al festival di Torino nella sezione “Festa mobile”, “Un beau soleil intérieur” è tutto imperniato sull’attrice e sul suo personaggio: una pittrice cinquantenne, divorziata, che cerca ossessivamente l’amore autentico, interrogandosi continuamente, disperdendosi in una serie di rapporti inevitabilmente deludenti.
Passando impulsivamente da un letto all’altro, prima se la fa con un banchiere chiuso nel suo squallore autoritario e supponente (Xavier Beauvois, il regista di “Uomini di Dio”), quindi inizia un faticoso rapporto con un attore compiaciuto di sé, delle proprie parole, della propria distanza. Ci prova perfino con uno uomo del popolo, conosciuto in provincia, persona inadeguata perché estranea al suo milieu, ma che centrerà il problema, smascherando la vacuità delle sue ambizioni. Alla fine, s’imbatte in Gérard Depardieu, che concluderà il film con un lungo, verbosissimo, ripetitivo monologo in cui la donna trova forse una proiezione di se stessa, la scintilla di un possibile nuovo dialogo, e che è stato immediatamente celebrato dal pubblico festivaliero.
Mentre il personaggio di Juliette Binoche insegue se stessa tra frustrazioni e insoddisfazioni dell’amore irraggiungibile (Philippe Rouyer su Positif, pur elogiandolo, l’ha liquidato come un film “sulle difficoltà per i due sessi di trovare l’equilibrio amoroso passata la quarantina”), sono però i personaggi maschili a portare la fatica del “discorso” amoroso, finendo per incarnare più direttamente il problema del film dei Claire Denis. Che parte con grande intensità, stabilisce un rapporto forte con Juliette Binoche, ma nonostante tutta l’ironia che mette in questo inesauribile fiume di parole, finisce poi per precipitare nell’esibizione di uno stile lezioso e autocompiaciuto, chiuso nell’ammirazione di se stesso come i suoi personaggi. Un cinema che accetta al suo interno solo spettatori complici di un esasperato manierismo.