di Massimo Lechi.
A contraddistinguere il Cairo International Film Festival 2017 è stata senza dubbio la presenza, tanto sullo schermo quanto in carne e ossa, di forti personalità femminili. Eroine, demoni, miraggi, muse o sinuose fantasie erotiche, le donne sono apparse agli spettatori dell’Opera House – imponente complesso architettonico a pochi passi dai lussuosi alberghi della Nile Corniche – in tutte le loro possibili incarnazioni cinematografiche, regalando a gran parte dei film del concorso principale inquietudini e sfumature seduttive. Energiche star hollywoodiane come Hilary Swank e mitiche icone locali come Shadia hanno poi segnato la parte mondano-istituzionale, con la fugace apparizione della prima, vincitrice del Faten Hamama Excellence Award, e gli intensi e ripetuti omaggi alla seconda, attrice e cantante scomparsa pochi giorni prima della cerimonia di chiusura.
La trentanovesima edizione del festival, uno degli appuntamenti più importanti del cinema arabo e africano, doveva essere quella del rilancio dopo tante difficoltà dovute alle note turbolenze politiche egiziane e un 2016 piuttosto austero. Missione compiuta, nonostante l’agghiacciante attentato terroristico nel Sinai settentrionale – oltre trecento morti nella moschea di Al-Rawda – che, il 24 novembre, ha fatto ripiombare il paese nel lutto. Il presidente Magda Wassef e il direttore artistico Youssef Cherif Rizkallah hanno saputo tenere la rotta, accompagnando senza scossoni l’evento alla sua naturale conclusione sul tappeto rosso della scintillante El Manara Hall. Lì, in diretta televisiva, sotto gli occhi di Nicolas Cage e Adrien Brody, la giuria guidata da Hussein Fahmy ha onorato la competizione internazionale con scelte assai coraggiose: Premio Naguib Mahfouz per la miglior sceneggiatura a Los Perros di Marcela Said, Piramide d’argento per la miglior regia a Killing Jesus di Laura Mora e Piramide d’oro per il miglior film a L’Intrusa di Leonardo Di Costanzo. Cile, Colombia, Italia. Rispettivamente: il ritratto di una ricca borghese (la larraíniana Antonia Zegers) che diventa via via l’affresco di una società ancora tormentata dai fantasmi della dittatura fascista e dalle proprie inconfessabili complicità con essa; la storia di una ragazza di Medellín (Natasha Jaramillo) che avendo assistito all’omicidio di suo padre, colpita dal disinteresse della polizia, decide di trovare l’assassino e farsi giustizia da sola; un grande racconto morale con al centro due donne diversissime sullo sfondo della periferia napoletana.
Le protagoniste de L’Intrusa, in particolare, calate in un contesto socio-culturale che le stringe simbolicamente d’assedio con le sue contraddizioni e conflittualità apparentemente irrisolvibili, sono figure complesse, cui il nitido realismo e la sobria scrittura di Di Costanzo (coadiuvato in sede di sceneggiatura da Maurizio Braucci e Bruno Oliviero) conferiscono innegabile spessore drammatico. Giovanna (Raffaella Giordano), un’educatrice che si è sempre battuta per garantire ai bambini di un quartiere difficile uno spazio protetto dove crescere e giocare, si trova a dover ospitare Maria (Valentina Vannino), moglie di un brutale camorrista, e i suoi figli. Da questo incontro-scontro nasce un dilemma morale che spacca il film e lo attraversa come una ferita, lasciando alla fine un senso di vuoto e più di una domanda inevasa. Curiosamente, tutto il contrario di quanto avviene in Fortunata di Sergio Castellitto (altro titolo italiano in concorso), il cui personaggio centrale, la parrucchiera affamata di vita interpretata con foga da Jasmine Trinca, non sembra certo perdersi in dubbi ed esitazioni nel rabbioso tentativo di liberarsi del peso del passato e trovare un nuovo benessere e una nuova felicità fuori dal pantano della borgata.
Nel claustrofobico dramma d’interni franco-belga-libanese Insyriated, firmato dal direttore della fotografia Philippe Van Leeuw, l’assedio è invece ben poco simbolico e lo spazio per sogni e speranze nullo. Mentre nelle strade di una città devastata dalla guerra i civili vengono uccisi da bombe e cecchini, Oum Yazan (la veterana palestinese Hiam Abbass) trasforma l’appartamento di famiglia in un rifugio per sé, i suoi cari e i pochi vicini di casa superstiti, tra cui Halima (Diamand Abou Abboud, meritatamente premiata come miglior attrice) che pagherà per tutti lasciandosi stuprare da un oscuro miliziano. Esclusi un vecchio e il figlio minore della volenterosa matriarca, anch’essi prigionieri in casa propria, gli uomini sono a combattere lontano o morti chissà dove: sono assenze dolorose. Costrette ad attenderli spiando il mondo da finestre sbarrate, in una condizione di cattività snervante che le rende di fatto soggetti passivi, le donne diventano così al contempo testimoni e vittime di un conflitto senza senso, al quale paiono in grado di opporre solo una vuota routine, piccoli gesti e riti senza ormai alcuna parvenza di normalità.
Dopo tanto realismo e tanta tragedia, l’elemento erotico è emerso con prepotenza in una sorta di coda peccaminosa del concorso: due film più modesti, sebbene sorprendentemente ben accolti dal pubblico del festival, dove la donna o, per meglio dire, il corpo femminile è causa di voglie proibite e di comportamenti pericolosi da parte di maschi in preda al desiderio. In The Way Station di Hong Anh, opera prima vietnamita grondante letteratura, un giovane senza arte né parte finisce a lavorare in un lurido ristorante dove presto instaura un precario ménage à trois con l’altro garzone e la figlia paraplegica del truce proprietario. Tra animali decapitati e scene di sesso al chiaro di luna, l’esile e pallida figura della sfortunata ragazza diventa il cuore di un melodramma tutto gelosie, passioni e morbosità dalle conseguenze prevedibilmente amare. Infine, in You Go To My Head, discusso esordio registico del produttore Dimitri de Clercq, il corpo della discordia è quello asciutto e statuario di Delfine Bafort. Sospeso tra Antonioni, Bertolucci e il Wenders di Paris, Texas, il film flirta per due ore con l’esotismo e il kitsch raccontando una storia di ossessione amorosa basata su un soggetto abbastanza temerario: un architetto in crisi trova nel bel mezzo del Sahara una magnifica bionda che ha perso la memoria in un incidente stradale e, innamoratosi all’istante, decide di fingersi suo marito e portarla a vivere con sé in una villa con piscina tra le dune. La talentuosa top model belga, ad anni di distanza dal solipsistico cult movie di Vincent Gallo Promises Written in Water (passato in concorso, tra selvagge contestazioni, alla Mostra di Venezia 2010), con la sua carica di fredda sensualità torna qui a incarnare un ideale di bellezza assoluto ed estremo, a uso e consumo dello spettatore maschio. Una musa persa nel deserto, inconsapevolmente in attesa di uno sguardo che la prenda e la conduca lontano dalla realtà cruda e spietata.