di Renato Venturelli.
La struttura è quella classica dell’allestimento di uno spettacolo, con le varie fasi della presentazione dei partecipanti, l’addestramento, la selezione, la prova finale in forma di torneo. Ma “A voix haute – Speak-Up” – in concorso al Torino Film Festival – utilizza lo schema in modo particolare, in quanto si tratta del documentario promozionale di un concorso che si tiene ogni anno presso l’Università di Saint-Denis, alla periferia di Parigi, e si propone uno scopo per così dire “sociale”.
Stabilire il miglior oratore del 93 (numero del dipartimento Seine-Saint-Denis) significa infatti avvicinare all’uso oratorio della parola ragazzi provenienti da quartieri disagiati, cresciuti in ambienti dal linguaggio gergale e semplificato che rischia di pesare per sempre sul loro futuro, condizionandone il percorso all’interno della società, condannandoli a una strisciante emarginazione.
Il film segue passo passo il percorso organizzativo, didattico e spettacolare: prima vediamo riuniti i trenta selezionati, quindi gli insegnanti illustrano i vari corsi, i ragazzi si presentano e cominciano ad esibirsi nell’uso della parola, della gestualità, della retorica. E nell’ultima parte l’addestramento approda alla fase competitiva, con gli studenti che si affrontano a coppie su argomenti indicati, difendendo ciascuno una tesi contrapposta al rivale, e cercando di convincere il pubblico con le tecniche espositive apprese nel corso e integrate dalla propria personalità.
Fin dall’inizio, i ragazzi dicono di volersi impadronire della parola perché è potere, permette un’emancipazione dalla loro condizione di emarginati, favorisce la conquista di un posto all’interno di una società che però nessuno pensa mai di voler cambiare, ma in cui cerca di trovare una posizione di rilievo. L’uso della parola come strumento di affermazione e di successo, insomma.
Il corso, del resto, non è strutturato tanto sul linguaggio in sé, o sulla sua capacità di esprimere le personalità degli studenti, ma sulla sua funzione sociale di convinzione e manipolazione. La fase finale della competizione sarà così un vero e proprio show, per molti aspetti simile ai programmi televisivi in cui i concorrenti si sfidano nel raccontare barzellette o interpretare numeri cabarettistici: non a caso uno dei finalisti riuscirà a sfondare, ottenendo un ingaggio come attore.
Diretto da uno dei fondatori della società che gestisce il concorso, “A voix haute” ha un andamento inevitabilmente un po’ didascalico e ripetitivo, ma è attraversato da un’ideologia molto precisa, con tanto di ragazza di origine siriano-americana che si esibisce in una rievocazione anti-Assad fondata sul patetismo: l’addestramento all’uso della parola e della retorica nella prospettiva di un inserimento all’interno di una società da accettare così com’è e da non mettere mai in discussione.