di Giulio D’Amicone.
Quando scomparve nel 1983, Ross Macdonald stava lavorando ad una sceneggiatura tratta dal suo romanzo Paura di vivere (The instant enemy, cioè “Il nemico immediato” o meglio “imminente”). Essendo appassionato di libri gialli fin dall’adolescenza, mi capitò tra le mani proprio questo romanzo quando avevo diciotto anni. La trama era intricatissima: l’investigatore Lew Archer, ingaggiato per rintracciare una ragazza fuggita di casa, si trovava a poco a poco invischiato in una serie di misfatti tali da coinvolgere ben tre generazioni. Ma proprio questa complessità mi conquistò: l’intrigo era sviluppato con grande maestria, senza sbavature, utilizzando un linguaggio denso ed essenziale anche nelle scene d’azione (che peraltro non sconfinavano mai nella compiaciuta violenza cui tanti autori ricorrono per mascherare la loro effettiva assenza d’idee). Fu dunque un colpo di fulmine, anzi un amore a prima vista (e trattandosi di libri l’espressione non mi pare inadeguata); senza indugiare, mi affrettai a reperire l’Omnibus intitolato Le sette fatiche di Lew Archer curato da Alberto Tedeschi e divorai i sette romanzi compresi nel volumone. Da allora i gialli di Macdonald (all’anagrafe Kenneth Millar) mi hanno accompagnato per tutta la vita.
Il tempo purtroppo non ha giocato a suo favore. Avendo esordito con le avventure di Archer nel 1949, egli giungeva terzo dopo Hammett e Chandler, e la critica, con poche eccezioni, gli ha sempre riservato il terzo posto. Eppure sotto molti aspetti egli resta insuperabile. Si legga per esempio l’ incipit di Non fuggire sceriffo (Find a victim, 1955): “Era il più spaventoso autostoppista che mai mi avesse fatto cenno perché mi fermassi. I suoi occhi erano buchi neri nel volto giallo, la bocca una violenta pennellata di rosso, come il ghigno dipinto d’un pagliaccio”. Puro espressionismo.
Ed è un peccato, perché tra i tanti investigatori nati dalla fantasia dei giallisti statunitensi Archer possiede una personalità ben distinta. Sebbene in genere non si tiri indietro di fronte al rischio, ha sufficiente buon senso per non impiegarsi in imprese superiori alle sue forze, e più di una volta è costretto ad ammettere lo smacco: si legga lo splendido capitolo di Costa dei barbari (The barbarous coast, 1956), ambientato a Hollywood, in cui dopo un lungo inseguimento è costretto a deporre le armi (letteralmente) di fronte ai sicari che lo hanno tallonato negli studi cinematografici. Inoltre, unico fra tanti, si spinge fino a confessare un progressivo invecchiamento: gli ultimi due romanzi, recentemente ristampati, offrono il ritratto di un uomo oltre la cinquantina, più incline allo studio psicologico che a menar le mani. Quasi totalmente privo di senso dell’umorismo, laconico e talvolta eccessivamente brusco, Archer è in fondo un perdente: e proprio questa caratteristica lo rende simpatico.
Neppure il mondo del cinema è stato in grado di offrire a Macdonald le soddisfazioni che avrebbe meritato. “Hollywood ha in casa una miniera sfruttata poco e male”, notava Ranieri Carano nel 1978: e aveva pienamente ragione, giacché nella folta produzione dello scrittore californiano i valori d’immagine sono, in molti casi, superiori a quelli di Chandler e dei tanti suoi epigoni. Ma se Sam Spade e Philip Marlowe ebbero il privilegio di essere incarnati da Humphrey Bogart (il secondo anche da molti altri), il povero Lew Archer ha potuto usufruire solo di due trasposizioni interpretate da Paul Newman (che impose oltretutto il cambio di nome in Harper), oltre a una produzione televisiva comprendente soltanto The underground man, un film diretto nel 1974 da Paul Wendkos dove il detective era assurdamente impersonato da un attore con la capigliatura nivea alla Beppe Severgnini, oltre a una breve serie di telefilm dove Archer assumeva i tratti di Brian Keith, ottimo attore che non si potrebbe pensare più distante dal personaggio immaginato da Macdonald.
Che anche Paul Newman, del resto, abbia poco a che spartire con l’originale è evidente sin dai primi minuti di Harper (Detective story, 1966) e non solo per il fisico, essendo Lew Archer descritto come un uomo grande e grosso dai capelli neri. Vediamo il nostro divo svegliarsi in un miserando appartamento e prepararsi un caffè con i fondi avanzati del giorno prima: poi però raggiunge la sua cliente in una lussuosa auto sportiva (nel romanzo prende un taxi), e per tutto il film mastica in continuazione gomma americana, che ogni tanto sputa o appiccica sotto i tavoli. Questo non è Lew Archer! Per altro, la regia corretta di Jack Smight si pone diligentemente al servizio del suo spesso incontenibile narcisismo e di un cast notevole comprendente tra gli altri Lauren Bacall, Shelley Winters e Robert Webber in un personaggio per certi versi simile a quello che interpreterà nel 1974 in Voglio la testa di Garcia.
Trascorrono quasi dieci anni prima che Newman recuperi il personaggio. The drowning pool (Detective Harper: acqua alla gola, 1975) è diretto da un regista di altra levatura come Stuart Rosenberg ed è sceneggiato tra gli altri da Walter Hill. L’interpretazione del divo ormai incanutito è più controllata, ed anche stavolta è circondato da attori di gran livello come Joanne Woodward ed Anthony Franciosa, oltre a una Melanie Griffith appena diciottenne. Sebbene la trama riprenda – non troppo fedelmente – il secondo e meno riuscito romanzo di Macdonald dal medesimo titolo (in italiano Il vortice, pubblicato nel 1950), il divo somiglia piuttosto all’Archer dei romanzi della maturità come Il mondo è marcio (The goodbye look, 1969). Purtroppo neppure questo film può dirsi completamente riuscito: convenzionale è la figura del magnate-canaglia interpretato da Murray Hamilton, che ricorda i cattivi di James Bond ed è ovviamente destinato a fare una brutta fine; convenzionale è il costante rifiuto del protagonista alle profferte femminili. Quando poi alla fine Linda Haynes gli dice “Tu non sei veramente un duro” e lui risponde con un gesto di simpatia accompagnato da un bel sorriso, non abbiamo più dubbi: ancora una volta il divismo ha prevalso sul personaggio.
Non direi, in conclusione, che l’odierna programmazione statunitense lasci sperare in una nuova e più aderente incarnazione del “terzo privato gentiluomo” (secondo la definizione di Oreste Del Buono). Le fragorose baracconate d’équipe sfornate a getto continuo per un pubblico di adolescenti si pongono all’opposto dell’individualistico private eye la cui ultima effimera personificazione si era avuta con George Peppard (sperando che ricompaia al più presto il bellissimo Facce per l’inferno). Eppure, estrarre una buona sceneggiatura da formidabili romanzi come Non piangete per chi ha ucciso o Il ghigno d’avorio non sarebbe un’impresa impossibile. Se è permesso, prendiamo un solo estratto:
“Voglio una confessione.”
Impiegò parecchi minuti per riprendersi… Si alzò goffamente e fece un passo verso di me.
“Le rilascerò una confessione, signor Archer, se mi permette di accostarmi per un attimo all’armadietto dei medicinali.”
“No.”
“Lei è duro.”
“Certo. Sono i deboli, quelli che si compatiscono continuamente come lei, che mi danno gli incubi… Andiamo, Benning.”
Fuori la luna era alta tra le stelle. Il medico guardò in su, come se la notte fosse divenuta un antro buio… Scese i gradini del portico, trascinandosi dietro la propria ombra, piccola e cupa.
È la pagina conclusiva del Ghigno d’avorio e ditemi voi se non sembra una sceneggiatura bell’e pronta. E nei romanzi dello scrittore di origine canadese esempi come questi possono trovarsi a iosa.