di Aldo Viganò.
Nel disordine produttivo, estetico, finanziario e programmatico del cinema italiano contemporaneo, trova spazio anche il tentativo di far rinascere una forma di melodramma sentimentale fatto di sguardi e di silenzi, di cose non dette, dietro le quali si celano profondi stati d’animo.
Si tratta di un genere “all’italiana” che a ben vedere non è mai morto, nonostante già negli anni Sessanta Michelangelo Antonioni avesse cercato di mettervi sopra la pietra tombale della sua autorialità. Un “genere” che serpeggia da un film all’altro e di cui si trovano anche tracce nel finto biopic dedicato agli ultimi anni di vita di Nico, al secolo Christa Päffgen, che la regista Susanna Nicchiarelli (nata nel 1975, cioè solo tredici anni prima della morte della cantante tedesca, musa di Lou Reed e Andy Wharol e voce solista dei Velvet Underground) racconta, con l’ausilio dell’ottima attrice e cantante danese Trine Dyrholm, come un personaggio diviso tra l’amore per il figlio (mai riconosciuto da Alain Delon) e quello per la musica, oltre che per l’eroina, tracciandone il ritratto crepuscolare di una ribelle sentimentale in un piccolo film non privo di originalità ed eleganza. Ma soprattutto quello di cui qui si scrive è “genere” che viene affrontato di petto dal quarantottenne Paolo Franchi – La spettatrice (2003), Nessuna pietà per gli eroi (2007), E la chiamano estate (2013) – autore ora di un film, Dove non ho mai abitato, il quale esprime il meglio di sé proprio nella rappresentazione dei corpi che si muovono silenziosi (e dolenti) in uno spazio da loro stessi creato.
Figlia di un famoso architetto torinese (felice ritorno sul grande schermo di Giulio Brogi), che non le ha mai perdonato l’abbandono della professione alla quale l’aveva avviata, Francesca (Emmanuelle Devos) vive da anni in Francia con la figlia ora adolescente e un marito gentile che il padre ostentatamente disprezza. Dopo una breve visita allo scorbutico genitore, la donna (ormai cinquantenne) è trattenuta a Torino dalla necessità di assisterlo perché è caduto e si è rotto un femore. È in questa occasione che Francesca accetta – secondo lei, più per dovere che per altro – di affiancare l’allievo prediletto dell’architetto, il coetaneo Massimo (Fabrizio Gifuni) nel lavoro di ristrutturazione di una villa sul lago per una coppia di giovani e ricchi committenti. Nasce così l’incontro di due solitudini. Due esseri umani che si rivelano molto abili nel costruire le case degli altri, ma assolutamente incapaci a dare una forma concreta alla possibile felicità comune che il caso offre loro.
Una volta tutto questo lo si chiamava alienazione. Ora, sembra dirci il film di Paolo Franchi (fortunatamente senza bisogno di ricorrere a metafore filosofiche), è causato soprattutto dall’incapacità dei due cinquantenni di abitare serenamente dentro al proprio corpo: cioè, in compagnia dei propri sentimenti e delle proprie passioni. Per l’età che è ormai passata? Per qualche frustrazione giovanile? O per che altro? Con soddisfazione dello spettatore, il regista e sceneggiatore evita di dare una risposta (inevitabilmente banale) a simili interrogativi che pur attraversano la sua narrazione, per puntare su un film (rigorosamente mantenuto bilingue) in cui ciò che veramente conta sono i corpi dei personaggi incapaci di trovare una stabile dimora. Da questa predilezione per le forme che caratterizza il film, ne risulta un’opera che guarda più verso l’indagine di due esseri umani incapaci di risolvere i propri grovigli interiori, che nella direzione (pur sovente suggerita) di un compiaciuto esercizio stilistico su architetture e arredamenti da rivista patinata.
Fatte ovviamente le debite proporzioni, si potrebbe così concludere che Dove non ho mai abitato suggerisce l’idea di un film che si colloca più dalle parti di Il ponte di Madison County di Clint Eastwood che da quella dei pur citati modelli di Antonioni o di Bolognini. E questo, reso evidente anche dalla fragilità dei personaggi collaterali, è un segnale che, pur nel suo statuto di un piccolo film, Dove non ho mai abitato forse non garantisce ancora nulla (considerati soprattutto i discontinui risultati sinora raggiunti) sulle prossime opere del regista Franchi, ma apre comunque uno spiraglio di speranza sul suo futuro; oltre che in generale su quello del cinema italiano, il quale – come del resto già in Nico 1988 e nei pur ancora pochi prodotti nazionali attenti alla forma – rivela anche qui un’apprezzabile attenzione per la recitazione. Soprattutto per quella femminile.
DOVE NON HO MAI ABITATO
(Italia-Francia, 2017) regia: Paolo Franchi – sceneggiatura: Paolo Franchi e Rinaldo Rocco – fotografia: Fabio Cianchetti – musica: Pino Donaggio – montaggio: Alessio Doglione. – Interpreti: Emmanuelle Devos (Francesca), Fabrizio Gifuni (Massimo), Giulio Brogi (Manfredi), Hippolyte Girardot (Benôit), Isabella Briganti (Sandra), Yorgo Voyagis (Theo). – distribuzione: Lucky Red – durata: un’ora e 37 minuti