di Aldo Viganò.
Se ne è andato l’8 settembre. In silenzio, dopo una lunga e dolorosa malattia di cui pochi erano a conoscenza. Aveva 75 anni e il suo rapporto con la propria morte è stato sino all’ultimo simile a quello di Thomas Mitchell nel finale di “Only Angels Have Wings”, quando con il collo spezzato sussurra all’amico Cary Grant: «Mandali via. Non voglio che mi vedano. Non ho paura, ma non so se sarò all’altezza».
Grande protagonista della più vitale stagione “cinefila” genovese (e non solo), Sandro Ambrogio era innanzitutto un amico. Un amico con il quale per due decenni – gli anni Sessanta e Settanta del Novecento – abbiamo in molti condiviso non solo l’amore incondizionato per il cinema classico, ma soprattutto quel singolare modo di scoprire in una sala buia, proiezione dopo proiezione, che la gioia degli occhi non è una colpa, che al cinema si può essere felici senza complessi, che il piacere dello spettatore cinematografico sta tutto nella oggettività delle immagini che scorrono a 24 fotogrammi al secondo. Ma Sandro era anche un amico capace di coinvolgere chi gli stava accanto con la convinzione estetico-culturale che Hollywood (soprattutto quella degli anni Quaranta e Cinquanta) era comunque il fondamentale punto di riferimento per coloro che sapevano accostarsi a un film come a un sistema linguistico compiuto, continuamente capace comunque di rinnovarsi.
Sandro era un “cinéphile” puro con una precisa e contagiosa idea di cinema, che non si esauriva certo in un programma informativo. Sandro non amava scrivere di cinema e tanto meno ebbe mai la tentazione di passare dietro la cinepresa. Il cinema, per lui, era solo quello che si poteva proiettare su uno schermo, godendone insieme agli altri (possibilmente tanti e di ogni classe sociale) lo scorrere vitale delle immagini in una stanza oscura. Come per tutti i “cinéphiles”, il cinema era per lui un oggetto di desiderio che non si esauriva mai. I film si vedono e si rivedono. Si cerca sempre di vederne di nuovi. All’infinito. Questa tentazione onnivora non aveva però in Sandro alcuna componente narcisistica o autoreferenziale. I film lui li cercava per salvarli fisicamente dal macero (quando ci riusciva) e poi per farli vedere ai più. Da questo suo appassionato atteggiamento salvifico (i cui pur effimeri risultati furono goduti anche da altri cineclub sorti in quegli anni) sono nate la programmazione del cinema Centrale e del cinema Italia (1968-1970) e soprattutto l’invenzione di Filmstory (1973-1977). Da qui sono nate anche le grandi retrospettive da Sandro Ambrogio organizzate nel nome della MGM o della Columbia o della Fox con i fondi di magazzino faticosamente reperiti a Roma dove sovente anche gli stessi distributori di quei film ignoravano l’esistenza. Il sogno di Sandro era la creazione di un luogo sacro dove tutto il cinema classico fosse presente e sempre disponibile per chi voleva conoscerlo. Un progetto impossibile, evidentemente (soprattutto se portato avanti da un privato cittadino), ma un sogno che stette sempre alla base della sua intensa attività cineclubbistica e che trovò infine una parziale attuazione con Filmstory, il suo capolavoro.
Attivo a pieno regime tra l’ottobre 1973 e il giugno 1977, Filmstory fu davvero per molti il tempio della “cinefilia” (non solo genovese). Due piccole sale – una di 60 posti intitolata a John Ford e l’altra con 110 eleganti poltroncine intitolata a De Mille – ricavate in magazzino interrato di via Caffaro, dove venivano proiettati circa 600 film all’anno. Due sale sempre piene, ma incapaci comunque di coprire i costi gestionali con i biglietti dai prezzi molto bassi. Due sale dove il cinema veniva celebrato non in modo indifferenziato, ma attraverso una programmazione che portava in primo piano gli autori e gli attori, i “generi” più popolari. Due sale dove i film venivano scelti per la loro valenza linguistico-narrativa e non certo per la loro appartenenza all’ideologia e alle mode del momento.
Gestita pensando al cinema più che alla copertura delle spese, inevitabile fu il fallimento commerciale dell’impresa di Sandro Ambrogio, ma nei suoi quattro anni di vita Filmstory (coerente punto d’arrivo della programmazione del cinema Centrale) mutò radicalmente il modo di vedere il cinema, formò una nuova generazione di “cinefili”, creando le premesse per l’abbandono dell’imperante contenutismo critico e per la condivisa consapevolezza della piena autonomia dell’opera cinematografica, vista senza paraocchi tematici o ideologici. A Filmstory trionfava il cinema-cinema. E di questa rivoluzione Sandro fu il vero timoniere, che governava le due sale di proiezione e l’ampio atrio con il bar annesso, dall’alto del piccolo ufficio a vetri posto davanti all’ingresso da via Caffaro e in cima alle scale che conducevano al cuore dove ogni giorno pulsava il cinema secondo Sandro Ambrogio.
Per questo, anche se da quarant’anni Sandro viveva ormai chiuso nel suo regale silenzio (circondato dai “suoi” libri e in compagnia di quei simulacri del cinema che sono le videocassette o i dvd o i blu-ray), il patrimonio della coerente e intransigente proposta culturale di Filmstory rimase sempre sullo sfondo dell’attività di ogni cineclub seguente, ma nello stesso tempo fu da questi anche tradito, perché all’intransigenza e alla purezza dell’idea di cinema sostenuta da Sandro, i “cinefili” della nuova generazione sostituirono quasi sempre un programma (pur ampliato) d’informazione sul cinema tutto.
Aristocraticamente isolato da un mondo del cinema che velocemente stava cambiato, Sandro avvertiva già ai tempi del trionfo di Filmstory l’amaro sapore della sconfitta, ma, anche se non riuscì mai a dar vita al sogno di una Cineteca che conservasse la fruibilità del cinema classico o a un festival internazionale in difesa della classicità, proseguì nello sforzo di affermare una sua precisa idea di cinema: appunto quella che con il linguaggio di allora si potrebbe definire di “tendenza”. Una tendenza che non ammetteva alcun compromesso. Prendere o lasciare. Perché il cinema classico è una cosa troppo seria per accettare di venire a patti con le mode della modernità. Meglio allora uscire silenziosamente di scena: con dignità e pudore. Proprio come Thomas Mitchell nel bel film di Hawks dedicato a quegli “avventurieri dell’aria” che sognavano di possedere le ali, pur sapendo che queste appartengono solo agli angeli.
Aldo Viganò