di Furio Fossati.
Ken Loach sa essere mediatico, coinvolgere, emozionare, interessare non solo come regista, ma anche quando si presenta per un’intervista, una conferenza stampa. Ultraottantenne è pieno di vita anche se, quando gli vengono chiesti i suoi progetti per il futuro, finge di essere un tranquillo pensionato. Elegante, sorridente, tratta ancora in maniera sanguigna temi sociali particolarmente drammatici, ma parlandone con garbo, cercando di convincere e non offendere chi è di idee diverse.
– Lei da sempre è identificato col cinema di impegno sociale: è una situazione che la inorgoglisce?
“Mi fa piacere, ovvio, ma nello stesso tempo mi costringe sempre più a scegliere temi coinvolgenti che cerco di trattare in maniera completa ed interessante. Ma non ritengo di essere il migliore. Ad esempio, Vittorio De Sica ha saputo fare vivere drammi veri con una finezza e sensibilità che non è mai stata né superata, né eguagliata. C’è moltissimo cinema ceco e tante altre opere di altre cinematografie che hanno saputo sensibilizzare le persone, la società.”
– Il suo rapporto con Internet, con il mondo virtuale?
“Sono un fruitore particolarmente critico di questa forma di comunicazione, ma ne apprezzo i molti lati positivi. Non è, però, mia intenzione realizzare video od altro per Internet perché non lo amo e lo considero disgregante per le persone che formalmente dialogano moltissimo, creano anche amicizie ma non si incontrano, non parlano tra di loro, non si conosceranno mai completamente. Oltretutto, c’è una fascia di persone che ha difficoltà nel suo utilizzo al di là dal recepire qualcosa di più che semplici informazioni.
Cinema e televisione sono diretti, uno si siede in poltrona e, se ha fortuna, si lascia affascinare dalle immagini che passano davanti ai suoi occhi: non deve fare altro che lasciarsi coinvolgere da quanto gli viene proposto. Da non sottovalutare nemmeno il teatro, dove lo spettatore ha ancora maggiore rapporto di contatto con l’opera raccontata, messa in scena.”
– Il suo collaudato rapporto di collaborazione con Paul Laverty (presente anche lui a Karlovy Vary e premiato anche lui con un Globo alla carriera)?
“Paul è un ‘ragazzo’ molto intelligente (n.d.r. Paul ha 60 anni, il regista 81) che ho incontrato nel 1992 quando era impegnato come avvocato per il Nicaragua. Ci siamo trovati così bene assieme che, fino ad ora, abbiamo realizzato 12 film tra cui alcuni premiati in Festival importanti quali Cannes, Berlino, Venezia, San Sebastian, Valladolid, L’Avana, Locarno, Rio De Janeiro e Karlovy Vary. Vuol dire che l’accoppiata funziona ancora bene.
– Come procedete nella stesura di un film?
“Paul scrive su di un pezzo qualsiasi di carta con la matita la sua idea, io la leggo, ne discutiamo e aggiungo qualche mia stupida osservazione. In questa maniera, lui capisce perfettamente la mia opinione che riesce a rispettare pur rimanendo il vero scrittore della sceneggiatura. Del resto, difficilmente trovo qualcosa che non mi piaccia nella stesura definitiva e questo mi aiuta molto a pensare unicamente allo sviluppo della regia.”
Aggiunge Laverty: “Tutto è molto organico, basato su discussioni e colloqui. Continuiamo a frequentarci per tutta la durata della preparazione dello script scambiandoci opinioni. Ogni progetto è diverso dall’altro, impossibile dire che ci sia un modo unico di lavorare. Dipende dal tipo di idea, dal come si vuole svilupparla, se collegata ad un nostro film su argomenti simili oppure no”.
– I suoi film, pur trattando temi spesso drammatici, non disdegnano qualche momento più rilassante.
“Non puoi vivere nel mondo e non trovare anche cose divertenti. Non è qualcosa che devi cercare, è compenetrato in tutto quello che ci circonda. E le persone sono contraddittorie non sono buone o cattive, tristi o allegre: sono un insieme di tutti questi elementi.
La vita è solo un complesso di cose prevedibili. E spesso quello che può sembrare una vittoria può trasformarsi in una sconfitta. In Io, Daniel Blake (I, Daniel Blake, 2016) il protagonista ottiene un appello e vincerà. Ci sono vittorie che non sono vittorie e sconfitte che non sono così male come sembrano. È così la vita: a volte devi avere una sconfitta per conquistare una vittoria”.
– Lei è sempre stato molto attivo anche in politica. Ci può dare un giudizio sulla brexit?
“E’ stato molto più complicato di quanto possa apparire tramite le informazioni giunte fuori dalla Gran Bretagna, perché molti a sinistra contestavano questa scelta poiché voleva essere cittadino del mondo, ma l’Unione Europea nel suo progetto politico ha agevolato unicamente le grandi aziende che con gli aiuti comunitari fanno enormi profitti e aiuta a creare la privatizzazione di tutto, compreso i servizi socialmente indispensabili, danneggiando il ceto meno abbiente. Per me sono stati anni persi, dannosi per la maggioranza dei britannici.”
– Ritiene sempre utile il contributo del cinema per sensibilizzare le persone?
“Certamente. L’intera politica globale è in un momento critico e ci sono molte cose che potremmo fare attraverso i film. Il fascismo non è morto, il capitalismo è più dannoso che positivo, vi sono guerre senza ragioni credibili come in Iraq che ha portato il caos in tutta la regione, con milioni di morti. I cineasti non cambieranno con le loro opere il mondo ma, almeno, parleranno a chi li vorrà ascoltare.”
Alla consegna del Globo di Cristallo ha ricordato che per lui era la terza volta a Karlovy Vary. La prima col suo film del debutto Poor Cow (1967) che aveva donato a Carol White il premio quale migliore attrice, la seconda nel 1970 con Kes (1969) vincitore del premio quale migliore film. Ha chiuso con una forte presa di posizione contro quei Paesi che non aiutano gli emigranti, le persone che fuggono da situazioni invivibili. L’accoglienza è un dovere per chi li riceve, un diritto per chi ne ha bisogno.