di Renato Venturelli.
Il gran finale è nel nome di Polanski, che con “Da una storia vera” realizza un film così capillarmente e accuratamente polanskiano da sembrare quasi un puro meccanismo di autoimitazione. Emmanuelle Seigner è una scrittrice di successo, che durante la presentazione di uno dei suoi libri incontra un’ammiratrice, si lascia agganciare e da quel momento comincia ad essere a poco a poco sopraffatta dalla donna, che s’insinua nella sua vita, sostituendosi a poco a poco a lei, risucchiando la sua identità, cominciando una storia forse di follia forse di vendetta. Tra le tante cose che si possono aggiungere c’è anche il fatto che la seconda donna, interpretata da Eva Green, è una ghost-writer, come il protagonista di uno degli ultimi thriller di Polanski, e quindi viene ulteriormente moltiplicato il discorso sul doppio: non solo, ma la scrittrice cerca anche di approfittare dell’occasione per sfruttare a sua volta la nuova amica, ispirandosi a lei e al loro rapporto per il suo nuovo romanzo.
I temi di Polanski ci sono tutti, così come la sua regia nitidissima, e in questo caso c’è anche da aggiungere che alla sceneggiatura ha collaborato Olivier Assayas, che curiosamente vi apporta anch’egli temi e ossessioni dei suoi ultimi due film, “Sils Maria” e “Personal Shopper”, imperniati su storie di doppi femminili. In più, c’è questo spunto della “storia vera”, dell’ossessione biografica e autobiografica, dell’invito che la protagonista si sente ripetere a rivelare finalmente il lato nascosto di se stessa, della sua scelta di sfruttare la situazione per derivarne un ulteriore gioco di specchi del suo nuovo libro.
Se “Da una storia vera” è un film che va sul sicuro, ma lo fa in maniera impeccabile, molto tortuoso e inconcludente è invece l’ultimo film in concorso, “You Were Never Really Here”, ennesima versione di quel cinema di genere riveduto e riletto in funzione autoriale e festivaliera che ha costituito uno degli assi di Cannes 2017. Anche qui c’è un ottimo protagonista, Joaquim Phoenix, sfruttato però in maniera minima rispetto a quanto da lui ha saputo trarre ad esempio un James Gray. E il suo ruolo è quello di un killer solitario, una specie di neo-taxi driver dagli occhi lampeggianti, che vive in casa con la vecchia madre un po’ svanita e viene incaricato di andare a salvare una ragazzina tenuta prigioniera come schiava sessuale assieme ad altre giovanissime: cosa che va a fare armato del martello con cui spacca arti e teste, ma provocando anche una reazione a catena che finisce per travolgerlo.
Il problema sta soprattutto nella regia della Lynn Ramsay di “We Need to Talk about Kevin”(altro pastrocchio a base di violenze, immagini estetizzanti e didascalismi psicologici, visto a Cannes qualche anno fa), che cerca per lunghi tratti un racconto tutta violenza e poche parole, quasi senza dialoghi, puntando invece su immagini ricercate e pretenziosità arty.