di Renato Venturelli.
In un festival dove giorno dopo giorno si storce sempre più il naso su tutto, sostenendo come ogni anno che i film migliori sono quelli delle altre sezioni, riaccende un po’ di animi questo nuovo film dei Safdie Bros, registi newyorkesi che stanno rapidamente diventando due nomi prediletti dei grandi festival. Il loro “Good Time” ruota attorno a una situazione da crime-movie un po’ di serie B, ma naturalmente riletto e accuratamente ripensato secondo un’ottica indie, anche se gli autori dicono di rifarsi per il protagonista all’Al Pacino di “Quel pomeriggio di un giorno da cani”, al De Niro di “Taxi Driver” o al Tommy Lee Jones del televisivo “La ballata della sedia elettrica”. Al centro, due fratelli rapinatori, uno dei quali è però mentalmente un po’ ritardato e si fa subito arrestare: l’altro (un Robert Pattinson in versione anomala) si prodiga allora per liberarlo, cerca di pagare la cauzione, irrompe nell’ospedale in cui è ricoverato per le botte prese in carcere… e finisce per trascinare con sé la persona sbagliata. La variazione sul tema della coppia criminale in fuga decolla così su un clamoroso errore di persona, gioca sul tema del doppio, ironizza sui crocevia degli intrecci convenzionali, stando addosso ai personaggi a un ritmo forzatamente sovreccitato.
E’ il cinema di genere secondo lo sguardo “intelligente” dei registi indie, così come un’altra rilettura di classiche situazioni di genere -variante fantathrilling- la ritroviamo alla Quinzaine in “Bushwick”, diretto da un’altra coppia di registi: Cary Murnion e Jonathan Milott. In questo caso, c’è una coppietta che arriva in una stazione della metropolitana, s’accorge che qualcosa non va perché il posto s’è improvvisamente fatto deserto e dalla superficie arrivano rumori concitati. E appena salgono le scale che portano in strada, si ritrovano di colpo in mezzo all’inferno. Il ragazzo viene subito ucciso, la ragazza comincia una corsa disperata per la sopravvivenza tra incursioni aeree, bombe, mezzi blindati, cecchini appostati che sparano sulla gente. Per un bel pezzo è il caos più totale e incomprensibile, poi comincia a farsi largo la bizzarra versione da B-movie per spettatori cool per cui sarebbe in corso una nuova guerra di secessione da parte del Texas e da schiere di mercenari dell’America trumpiana armati fino ai denti: e il quartiere alla moda di Bushwick sarebbe stato preso di mira perché a carattere più multirazziale, quindi secondo la teoria dei secessionisti meno forte dal punto di vista identitario, meno “americano” e più debole. I capolavori anni ’70 di John Carpenter e Walter Hill sono distanti, qui siamo in un cinema indie dalle tentazioni “game”, dove si pone il problema dell’arretramento del racconto e della sua sostituzione con una formula: ma i due autori sono semi-esordienti, li si possono vedere all’opera anche in tv nella serie “The Off Season” e insomma si possono aspettare un po’.
Sia “Good Time” sia “Bushwick” vengono presentati nello stesso giorno di “Twin Peaks” che finisce ovviamente per rubar loro la scena. Ma in concorso è anche la giornata di “Krotkaja”, vagamente ispirato alla “Mite” di Dostoevskij e firmato da Sergej Loznitsa, ucraino militante che ci offre un ritratto cupissimo della Russia profonda, tutto ambientato in una località periferica riunita attorno al suo penitenziario dove la protagonista cerca disperatamente di recapitare un pacco al marito carcerato. Come in un interminabile percorso kafkiano, si ritroverà sempre respinta dal potere, rigettata in un mondo di corruzione, minaccia, prostituzione, dove tutti sembrano sommersi e complici di questo sonno della ragione e dell’etica. Un film dove lo sguardo sulla realtà sconfina nel grottesco e nell’onirico: tra i più complessi e a suo modo potenti del concorso, ma anche tra i più ossessivi e ripetitivi.