di Renato Venturelli
Passa alla Quinzaine “L’intrusa”, secondo lungometraggio di finzione del quasi sessantenne Leonardo Di Costanzo, che costituisce un risultato ancor più limpido e nitido rispetto al già notevole esordio di “L’intervallo”. Stavolta Di Costanzo ci porta all’interno di una comunità di volontari napoletani, dediti a un gruppo di bambini di quartiere a vario titolo disagiati, e come nel film precedente c’è ancora un piccolo universo isolato di sospensione dal mondo esterno e dalle sue violenze, ma che da quel mondo e da quella logica si ritrova inesorabilmente risucchiato.
La vita quotidiana di questo “doposcuola” cambia dal momento in cui una giovane donna con due figli trova ospitalità presso una casupola interna al complesso, salvo poi scoprire che si tratta della moglie di un feroce boss camorrista e che quel ricovero era stato identificato come luogo ideale per sfuggire alle ricerche della polizia.
Quando gli agenti irrompono e arrestano l’uomo, la responsabile dei volontari accetta che la donna continui a vivere lì con le sue due figlie, nonostante l’abbia ingannata, anche perché comprende come la permanenza in quel luogo le serva per non essere risucchiata dalla famiglia del marito. Ma quello che più conta è come da quel momento l’intero film si costruisca come un incrocio tesissimo di sguardi, dove la presenza di quella donna diversa, “intrusa” come la figlia faticosamente coinvolta nei giochi degli altri bambini (ma per certi versi è “intrusa” anche la volontaria dell’associazione), diventa per molti un problema inaccettabile, fa scattare meccanismi di esclusione proprio all’interno di un luogo che era invece fondato sulla speranza di inclusione. Il risultato è un film dalla scrittura essenziale, tutto fondato sulla nitidezza di un cinema purissimo che rimanda immediatamente alla dimensione etica, alla sua problematicità strutturata sul filo dello sguardo, della scansione spaziale, delle sue implicazioni morali.
Tra i film in concorso della giornata, provoca reazioni opposte l’ultimo Michael Haneke di Happy End, ennesimo teorema raggelato e tagliente sulla società borghese, il suo rapporto con la morte e con l’immagine, i suoi tortuosi rituali di potere.
Qui siamo nella villa di una famiglia addirittura presso Calais, luogo fin troppo simbolico dell’Europa di oggi, e Isabelle Huppert è a capo di una famiglia di ricchi imprenditori nel campo edile, dove però fin dall’inizio si mostra qualche crepa. Nel grande cantiere dove deve nascere un nuovo complesso si sviluppa all’improvviso una frana che travolge un muratore, poi si scopre che la moglie di uno dei componenti della famiglia è finita all’ospedale per avvelenamento da farmaci, quindi il figlio rovina una festa omaggiando polemicamente la cameriera come “la nostra schiava marocchina”.
E Haneke prosegue a raccontare questo mondo irrigidito e ferocemente chiuso su se stesso anche attraverso piccole rotture sul piano narrativo, incrinando qua e là la rappresentazione con dettagli stranianti, inserendo filmati da telefonini, facendo raccontare al vecchio patriarca Jean-Louis Trintignant l’eutanasia della moglie di “Amour”, e quindi provocando in tal modo nello spettatore uno di quegli scarti nel bel mezzo della finzione che tanto piacciono al regista perché introducono un’autoriflessione sull’immagine e sul cinema. Trintignant va anche in giro a chiedere disperatamente a tutti un’arma per potersi uccidere, poi si fa aiutare dalla nipotina ad annegarsi e lei lo riprende col telefonino mentre scivola in acqua sulla sua carrozzina: bisogna dire che Haneke sa sempre inventare nuove perfidie, all’interno di un meccanismo-film sempre più levigato, ingegnosamente impeccabile e straniante ma in realtà mai, o non più, veramente spiazzante.