di Massimo Lechi.
Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi non hanno bisogno di troppe presentazioni. Artisti visivi dediti alla sperimentazione cinematografica dalla fine degli anni Settanta, sono infatti tra gli autori italiani più apprezzati e rispettati. In oltre quattro decenni di intenso lavoro sui materiali d’archivio (celebre la loro “camera analitica” per rifilmare le pellicole) hanno saputo creare un cinema che rifugge ogni possibile etichetta e non assomiglia a nient’altro. Documentari, saggi critici, denunce visive, litanie: le loro opere, proiettate nei principali festival europei ed esposte in luoghi d’arte come la Biennale di Venezia o il Centre Pompidou di Parigi, racchiudono in sé tutte queste definizioni, pur non aderendo completamente a nessuna di esse.
Il Thessaloniki Documentary Festival, con il sostegno di Documenta 14 (che li ospita sia ad Atene sia a Kassel, in Germania), ha deciso quest’anno di dedicare loro un omaggio, offrendo al pubblico greco un piccolo ma significativo compendio del loro percorso artistico. Cinque i film prescelti: il corto Nocturne (1997), Inventario Balcanico (2000), Images d’Orient: Tourisme Vandale (2001), Oh! Uomo (2004) e Pays Barbare (2013), uno dei loro titoli più celebri, in concorso al festival di Locarno. A tenere insieme la selezione, i grandi temi che da sempre affascinano Gianikian e Ricci Lucchi: il colonialismo, l’imperialismo, la guerra, la violenza della Storia. E naturalmente la memoria, impressa su frammenti di pellicola come una lunga, profonda ferita.
La rassegna di Salonicco, accolta con favore e curiosità degli spettatori locali, è stata l’occasione per questa intervista, nella quale la coppia di artisti-alchimisti – come vengono talvolta chiamati, per via del loro complesso metodo di lavoro – ha risposto con generosità ad alcune domande su quarant’anni di cinema e arte.
Vi riconoscete nella parola “alchimisti”?
YG: Mah, ci hanno sempre definiti in molti modi. Alchimisti, filologi, etnografi, storici… Usiamo il materiale d’archivio da molti anni, dalla fine degli anni Settanta, in una maniera diversa dagli altri. Cioè facendo dei montaggi, tagliando e rincollando, ma soprattutto rifilmando quello che ci interessa. La parola “alchimisti” forse ce la portiamo dietro ancora oggi perché agli inizi mostravamo in giro i nostri film accompagnandoli con degli odori.
Siete entrambi del 1942: figli della guerra. E inoltre venite da mondi, la pittura e l’architettura, in cui l’immagine è centrale.
ARL: Sì, certo. Nasciamo come artisti visivi.
Come vi siete conosciuti?
YG: Ci ha messi in contatto un amico poeta del Gruppo 63, di Reggio Emilia: Corrado Costa. Entrambi facevamo dell’arte: Angela aveva studiato con Oskar Kokoschka, e io invece giravo già dei film in formato ridotto, in 8mm. All’inizio lavoravamo sugli oggetti, molti dei quali risalenti alla prima guerra mondiale, e la colonna olfattiva che li accompagnava metteva in moto la memoria. Eravamo anche legati all’arte concettuale dell’epoca… Tra l’altro, esiste un video, Il Viaggio di La Rose, fatto dal Museo di Ferrara nel ’75, che era andato perso e che è stato restaurato per la nostra retrospettiva al Beaubourg l’anno scorso. Riguardandolo abbiamo pensato che lì c’era tutto il nostro percorso futuro sulla guerra, la violenza e la memoria.
E poi c’è stato il passaggio al lavoro sulla pellicola.
YG: Passaggio alla pellicola, e poi ritorno all’arte, con le installazioni… Ci interessa far vedere i lavori anche al di fuori della sala. Abbiamo fatto delle cose importanti alla Biennale di Venezia nel 2001, con Harald Szeemann: La Marcia dell’Uomo, un lavoro politico sull’Africa e il colonialismo, che abbracciava un periodo dalla fine dell’Ottocento agli anni Sessanta.
Quindi non c’è una reale differenza tra una pellicola, una tela, il foglio per gli acquerelli o altri supporti.
ARL: E’ un continuum. Il nostro lavoro è sì politico, ma è anche estetico. Abbiamo guardato sempre alla bellezza dell’immagine. Penso si possa fare un discorso politico senza usare necessariamente delle immagini brutte.
Etica ed estetica vanno insieme?
ARL: E’ un binomio molto abusato… (ride) Però i termini sono quelli. Quando abbiamo cominciato con l’archivio non siamo stati accolti bene, perché dicevano che usavamo le immagini degli altri, che non eravamo artisti… Oggi in molti ci imitano, ma noi prendiamo sempre un po’ le distanze.
Mi sembra che la differenza tra voi e altri registi o artisti che usano i materiali d’archivio consista nell’assoluta serietà del vostro lavoro. La vostra è una missione. Non c’è spazio per quell’ironia tipica di molta arte concettuale o di certo cinema documentario. Il rapporto con l’immagine è sacro.
ARL: Sì, il nostro materiale è sempre pochissimo manipolato: è quello che è. L’orrore si presenta così – si pensi agli invalidati di Oh! Uomo. Abbiamo fatto molti film senza commenti perché l’immagine era così forte di per se stessa che non serviva altro. Quando ci hanno chiesto di chiudere la Trilogia della Guerra abbiamo pensato che il dopoguerra fosse il corpo dell’uomo che aveva combattuto – o ciò che ne era rimasto. Purtroppo oggi rivediamo la violenza e le guerre coloniali, anche se in altre forme… Alcuni parlano del nostro lavoro in termini di nostalgia e memoria, ma non è quello che ci interessa. Noi abbiamo usato l’archivio per il presente. E’ una dialettica tra passato e presente.
Questo emerge con forza dalla selezione presentata al Thessaloniki Documentary Festival. Inventario Balcanico, Oh! Uomo, Pays Barbare e Images d’Orient svelano gli orrori del passato, ma parlano del presente.
YG: Pensavamo fosse importante far vedere Inventario Balcanico, perché molto attinente. I tedeschi in Grecia, i Balcani… Una guerra in vacanza, quasi.
A cominciare da Images d’Orient, l’esotismo attraversa tutti i film citati. Sono immagini di epoche lontane, ma anche di mondi lontani.
YG: Sì, lontani da noi… Images d’Orient è un film molto misterioso, perché sono italiani, quelli che vanno in India. E credo che siano stati descritti da Arnaldo Fraccaroli, un giornalista del Corriere della Sera di quegli anni, mentre accompagnava la figlia di Mussolini, che era l’ambasciatrice italiana.
Il turismo delle élites coloniali prefigura il turismo di massa, che è un’altra forma di sfruttamento. Voi rendete il carattere predatorio dell’imperialismo attraverso lo sguardo dei viaggiatori occidentali.
YG: Sì. Mentre in Dal Polo all’Equatore il viaggiatore è solo, qui si muove un gruppo, un gruppo che arriva a Calcutta e poi si sposta fino a Bombay. Quando abbiamo mostrato il film all’estero ci hanno detto che questi italiani sembravano più inglesi degli inglesi… E’ un film lavorato tutto sui dettagli, sui corpi dei bambini, delle donne, dei nativi. E poi ci sono questi rari testi di Henri Michaux, che Giovanna Marini canta in maniera struggente.
Giovanna Marini ha collaborato molto spesso con voi.
YG: Ha collaborato con noi in molti film, tra cui Pays Barbare, Prigionieri della Guerra e Su Tutte le Vette è Pace. Su Oh! Uomo solo per una parte, perché ad un certo punto era troppo duro per lei andare avanti…
In Pays Barbare la denuncia è forse persino più evidente. La quantità di immagini che qui usate è ricchissima.
YG: Mentre Images d’Orient è un film di un solo materiale – e non si sa bene chi lo abbia girato, forse addirittura Luca Comerio -, Pays Barbare è molto frastagliato. E’ povero ma ricco, di momenti anche privati.
Sono immagini figlie di un’epoca in cui si poteva ancora nascondere la brutalità della guerra.
YG: Sì, era proibito filmarla. Eppure è ancora nascosta negli archivi. Gli archivi sono luoghi dei servizi militari: non svelano tutto, ci sono zone in cui non si può accedere.
Per voi è stato doloroso fare questi film, a cominciare da Oh! Uomo?
YG: Non è facile avere davanti quelle immagini… A Cannes, alla proiezione pomeridiana per il pubblico di Oh! Uomo, Angela ha detto: “Abbiate il coraggio di vedere questo film: il coraggio che abbiamo avuto noi a farlo.”
Ho letto in una vostra vecchia intervista che quando avete finito di lavorare a Dal Polo all’Equatore, dopo cinque anni, vi siete resi conto che non riconoscevate più Milano.
YG: Infatti… Dopo tutti quegli anni in una camera oscura uno diventa un po’ paranoico.
Immergersi nel passato per raccontare il presente, finendo però per perdere il contatto con il mondo circostante… La trovo una contraddizione affascinante.
YG: E’ una specie di Arancia Meccanica: se si scattano tanti fotogrammi, poi bisogna vederli tutti, uno per uno. E questo è talmente doloroso, e pericoloso…
Perché pericoloso?
YG: Perché è un’indigestione di fotogrammi – per quello che non si vedeva più Milano! (ride) Ma poi lì ci eravamo persi. Cinque anni perché ci eravamo persi… Il montaggio è stato molto complicato.
Cosa avete imparato dall’esperienza di Dal Polo all’Equatore?
YG: Abbiamo affinato il metodo.
Da spettatore, nei vostri film, percepisco sempre due livelli. Da una parte c’è il montaggio…
ARL: Il montaggio, dico sempre, è il momento fatale.
Dall’altra però c’è la singola immagine, il singolo fotogramma che ha una sua forza autonoma ed è un’opera a sé. E’ anche una storia a sé.
YG: Sì, è un’opera a sé, con dietro storie incredibili… Le cose fisse sono quasi più interessanti di quelle in movimento. L’uomo che ha fotografato la parte finale di Pays Barbare era un operaio della Caproni, dell’industria aeronautica. C’è una fotografia che non è nel film, con il gruppo degli operai in Africa, dove lui punta una pistola al fotografo. E’ armato. Un operaio armato, che amava l’Africa e le sue donne, e il cui compito era quello di dipingere i buchi negli aerei fatti da vecchi fucili. Dipingeva i cerchi con i colori della bandiera italiana.
Ogni immagine che usate potrebbe essere l’inizio di un altro film.
YG: Diciamo ogni serie…
ARL: Yervant vorrebbe riaprire tutti i film e rimontarli. Io cerco di controllare questa fobia… (ride)
YG: Aggiungere, più che rimontare. Delle braccia, dei piedi… Cose che sono rimaste fuori.
ARL: Comunque sì, in effetti è così. E poi, in un certo senso, ogni nostro film si ricongiunge con gli altri. A Milano abbiamo fatto una mostra all’Hangar Bicocca – un posto enorme, dove un tempo si costruivano treni. Non abbiamo esposto i film perché era troppo complicato: solo le installazioni in un unico grande spazio. Ed era incredibile come ognuna rincorresse l’altra – ha stupito anche me che ho fatto i lavori… Quindi sì, c’è un dialogo. Un dialogo tra immagini, anche se sono distanti o di film diversi.
Trovate che lo spazio di una mostra o comunque la forma dell’installazione valorizzi di più il vostro lavoro?
ARL: Ci sono molti registi che fanno installazioni, ma in realtà proiettano i loro film… Per me l’installazione è qualcosa di diverso: in un tempo relativamente breve devi significare l’immagine in maniera molto veloce, molto forte, perché abbia un senso compiuto. E’ un’altra lettura. Il film sei costretto a vederlo stando seduto, mentre nel mondo dell’arte, in una mostra, la gente gira, cammina. C’è tempo di rivedere il lavoro, di ripensarlo.
YG: Alla Biennale, La Marcia dell’Uomo era fatta proprio così: su tre schermi, con lo spettatore che poteva passare da uno all’altro. Il primo era quello scientifico, di Étienne-Jules Marey, con i senegalesi che camminavano. Nel secondo, ambientato nel 1910, c’era una caccia sul lago Débo: il bianco uccideva i pellicani e con un calcio spingeva l’africano a raccogliere la preda. Nel terzo, negli anni Sessanta, un viaggiatore in Sudafrica si faceva filmare con due donne nude e le pagava. Il tutto durava cinque minuti.
Pays Barbare si conclude con la frase “Siamo immersi in una notte profonda, non sappiamo dove stiamo andando.” Sono parole che inquietano. C’è dentro il vostro smarrimento di artisti.
ARL: E’ una frase dettata dalla disperazione. E la disperazione – vediamo ora quello che succederà in Francia – è aumentata. Da artista, dopo tutto il nostro lavoro contro il fascismo, mi chiedo spesso cosa possiamo fare di più… A volte si cade in un senso di vuoto.
Ho l’impressione che lavoriate controvento. In Europa è tornato lo sciovinismo più bieco, mentre nel resto del mondo l’imperialismo, nelle sue forme più diverse, continua a far danni e vittime. In più viviamo in un’epoca in cui le immagini hanno perso valore, in cui ci sono troppe immagini ovunque…
YG: Non ci sono abbastanza parole, però. Abbastanza parole critiche. Noi abbiamo usato quelle.
ARL: In tanti ci dicono che oggi l’immagine viene bruciata da quella successiva, continuamente, mentre ciò non accade nei nostri film, a causa dei tempi lunghi, del rallentamento. La televisione ci ha disabituati a riflettere, a decodificare quello che ci viene rifilato. A volte, scherzando con Yervant, dico che forse la gente ci odia perché la costringiamo a pensare…
(Massimo Lechi)