VIAGGIO NELLA PORNOCHANCHADA – Intervista a Fernanda Pessoa

di Massimo Lechi.

Tra i titoli più interessanti della nuova competizione internazionale del diciannovesimo Thessaloniki Documentary Festival – il primo dopo le dimissioni del fondatore Dimitri Eipides – Stories Our Cinema Did (Not) Tell di Fernanda Pessoa occupa un posto particolare. Operazione critica di innegabili complessità e forza, il documentario della giovane artista visiva di San Paolo è un viaggio nel truculento e volgarissimo mondo della pornochanchada, genere cinematografico brasiliano che, con le sue donne nude, i suoi proletari allupati, i ricchi mandrilli e le sinistre esplosioni di erotismo e violenza, ha attraversato con immenso successo gran parte degli anni della dittatura militare.

Adorata da quello stesso pubblico che, negli anni Sessanta, prima e dopo il golpe del 1964, aveva decretato l’insuccesso del Cinema Novo dei Glauber Rocha e dei Ruy Guerra, la pornochanchada rimane adesso un ricordo sfocato, un piacere proibito per uomini insonni e cinefili curiosi, confinata com’è nelle rassegne televisive notturne e negli archivi statali in disarmo.

In Stories Our Cinema Did (Not) Tell Fernanda Pessoa, nel tentativo di ricostruire la storia oscura di un paese intero attraverso le immagini della sua produzione cinematografica peggiore, ha lavorato di montaggio con grande intelligenza, mettendo insieme spezzoni di film sempre diversi e al contempo sempre stupidamente uguali, tra paradossi, strizzatine d’occhio e accostamenti avventurosi. Il risultato è un bombardamento forsennato di schegge di cinema, una sfilata di corpi capaci di incarnare, ieri come oggi, le ossessioni per il sesso e il denaro di un Brasile in eterna bancarotta spirituale.

Come definiresti la pornochanchada?

La pornochanchada è un genere che abbiamo avuto in Brasile negli anni Settanta. E’ iniziata nel 1969 come commedia erotica, e poi si è sviluppata nel tempo in una serie di sotto-generi: thriller, dramma, e persino film politici. Tutti questi film erano caratterizzati dalle stesse atmosfere erotiche, dalla natura commerciale e dal budget molto basso. Il fenomeno all’epoca era diffuso in tutto il mondo – in Italia in particolare. La differenza principale col Brasile è che da noi divenne in assoluto il genere di maggior successo al botteghino. Se guardi la lista dei film più visti in Brasile negli anni Settanta, sette su dieci sono pornochanchada.

Il nome è un neologismo.

Sì, viene da porno e da chanchada, cioè la commedia musicale brasiliana degli anni Cinquanta. Solo che la pornochanchada non è porno – lo diventerà solo dopo, intorno al 1983 – e non è commedia. Quindi il nome non ha nulla a che fare con la cosa in sé.

Quando hai iniziato a studiarla?

Ai tempi dei miei studi di cinema iniziai a collaborare con la cineteca dell’università. Lì il mio capo era Maximo Barro, che in passato era stato montatore di diverse commedie erotiche. Lavorando all’archivio fotografico nel 2010 mi sono resa conto dell’importanza e della grandezza del fenomeno, di quanto fosse diverso da ciò che ci veniva insegnato.

Conoscevi già qualche titolo? Ne avevi mai visti?

Prima di lavorare all’archivio ne avevo visto soltanto uno, al corso di Storia del Cinema Brasiliano. Lo conoscevo come un genere di infima qualità, apolitico e di cattivo gusto. E nient’altro.

Ma in Brasile la pornochanchada fa ancora parte dell’immaginario collettivo? E’ un qualcosa di mitico e insieme ridicolo come la commedia erotica in Italia?

Tutti conoscono la parola pornochanchada, e se vedono una scena di una qualsiasi commedia erotica, riconoscono il genere immediatamente. Capisci che è pornochanchada dagli attori o dalla pessima qualità del sonoro – una caratteristica tipica degli anni Settanta. Oppure dai titoli con i doppi sensi.

Tutti la riconoscono, ma nessuno la guarda.

Sì. Negli anni Settanta sono state prodotte circa trecento commedie erotiche, e oggi, cercando a lungo, ne puoi trovare appena la metà. Alcuni di questi film sono stati restaurati da Canal Brasil, che li ha trasmessi alle due del mattino, quasi fossero opere scandalose. Ma anche chi guarda la pornochanchada in televisione non ne parla…

E’ una specie di piacere proibito.

Esatto, proprio così. Se ti piace, è perché ne puoi ridere. Ti piace perché è pessima.

Dev’essere stata un’impresa notevole, recuperare tutti questi film dimenticati.

E’ stato difficile innanzitutto trovare le singole copie dei film, per poterli guardare. E trovarle di buona qualità lo è stato ancora di più: la maggior parte dei produttori non ha più i film, se non nel vecchio formato U-matic, con il nastro gigante per la televisione.

Hai consultato principalmente archivi o ti sei concentrata da subito su attori, registi e case di produzione?

Entrambe le cose. Prima ho fatto tentativi agli archivi. In Brasile abbiamo due grandi cineteche: una a San Paolo, che è quella nazionale, e una a Rio de Janeiro. Quella di Rio è stupefacente. Il direttore sta facendo un gran lavoro, ma purtroppo non hanno soldi, e quindi ci sono migliaia di film che marciscono sugli scaffali. Lì avevano pochi film, alcuni in 35mm e altri che nemmeno potevano essere visionati per stabilirne la qualità. La Cineteca Brasiliana di San Paolo è invece in crisi dal 2012: avere accesso ai loro film richiede un’eternità. A un certo punto sapevamo che quattro titoli di cui avevamo bisogno erano lì, a San Paolo, ma loro continuavano a risponderci che non c’era personale per controllare e che saremmo dovuti tornare il mese seguente. Questa situazione è durata otto mesi… Ma comunque, oltre che con le cineteche, ho dovuto parlare con collezionisti privati, con i produttori, anche solo per recuperare delle videocassette. Ho persino trovato alcune pornochanchada grazie a YouTube.

E’ strano che le cineteche, di solito onnivore, abbiano così poco materiale. Pensi che ci sia un tentativo di rimozione della pornochanchada da parte delle istituzioni e del mondo del cinema brasiliano?

In Brasile, il discorso della memoria culturale è molto complicato. E non penso che si stia dando a questi film la giusta importanza. In più, quando c’è una grave crisi economica, la prima cosa che si fa è togliere soldi alla cultura. Nel 2016, in un momento importantissimo della realizzazione del nostro film, c’è stato un grande incendio alla Cineteca di San Paolo: ufficialmente sono andate distrutte soltanto delle copie, ma nessuno è in grado di dire quello che realmente è bruciato. Non dovrebbero esserci incendi in una cineteca nazionale, nel 2016.

E’ curioso che qui a Salonicco il tuo film venga mostrato insieme a Cinema Novo di Eryk Rocha. Seppur diversi, i vostri documentari mi sembrano strettamente legati l’uno all’altro.

E’ vero, dove finisce il documentario di Rocha inizia il mio… (sorride) Penso che Cinema Novo sia un film molto bello e interessante, e parla del periodo che precede Stories Our Cinema Did (Not) Tell. Cinema Novo, Cinema Marginal, pornochanchada: sono queste le fasi temporali. Tra la gente del Cinema Novo e quella della pornochanchada c’era un rapporto difficile: non si piacevano affatto. E tra questi ultimi c’è ancora oggi del risentimento perché il loro lavoro non è mai stato riconosciuto. I registi della pornochanchada cercavano soprattutto un contatto con il pubblico, cosa che i registi del Cinema Novo non avevano. Il Cinema Novo produceva film bellissimi che riscuotevano successo nei festival, ma gli spettatori brasiliani non andavano a vederli.

Il Cinema Novo parlava di povera gente delle favelas e del sertão: non stupisce il rifiuto da parte del pubblico. Nella pornochanchada a colpire è invece il campionario di uomini d’affari e di potere, di donne bellissime e sexy. Oltre all’ossessione per il lusso e per gli status symbol dell’epoca.

Una cosa che la pornochanchada mostra – e che a me interessa parecchio – è quello che in Brasile chiamiamo il Miracolo Economico. All’inizio degli anni Settanta ci fu un periodo in cui apparentemente l’economia crebbe. Ma non era vero: andava tutto bene solo per i ricchi e i militari. Uno dei capi della giunta, un giorno, disse una frase molto famosa: “l’economia va bene, la gente va male”. In quegli anni la crescita economica non influenzava la vita delle persone, e le disuguaglianze aumentavano. La prima parte di Stories Our Cinema Did (Not) Tell è tutta su questo: la borsa, il vendere e il comprare.… In questo senso credo che Cinema Novo di Rocha e il mio film meritino di essere visti insieme, perché dicono molto sulla storia del Brasile. Anche se sono convinta che il mio lavoro abbia in sé più contraddizioni. E’ un film critico, non ho cercato di fare un omaggio alla pornochanchada. La differenza è nel montaggio: velocissimo, che mette i film in rapporto tra loro, senza interviste o voce fuori campo. Il montaggio è il mio commento.

Il tuo è un film fatto di film.

Sì, esatto.

Però non hai un punto di vista cinefilo. O meglio, non ti limiti solo a quello. All’inizio potrebbe sembrare, ma dopo dieci minuti ci si rende perfettamente conto che Stories Our Cinema Did (Not) Tell non è un film sul cinema brasiliano.

Il soggetto del mio film non è la pornochanchada. La pornochanchada è il mezzo per arrivare altrove. Il film parla del Brasile degli anni Settanta e della dittatura militare. Quindi i temi sono la cultura industriale, il Miracolo Economico, la tortura, la violenza…

Tutte cose che, paradossalmente, erano presenti nella pornochanchada, il genere-droga che in teoria doveva narcotizzare il pubblico ma alla fine era infarcito degli elementi più inquietanti e complessi della realtà. E’ una contraddizione enorme.

Lo è! (ride)

Qual era allora il vero rapporto tra questo cinema e il potere?

La pornochanchada ha avuto sin dall’inizio un rapporto ambiguo con il potere. Gli oppositori del regime, e in particolare quelli di sinistra, hanno sempre detto che il genere era molto vicino ad esso. La verità però è che la dittatura non amava affatto questi film, perché erano erotici e amorali. La pornochanchada stava dunque in questa zona grigia – a metà tra il potere e gli oppositori del potere – dove nessuno diceva di apprezzarla, pubblico escluso.

Il regime ha mai provato a bloccare le lavorazioni dei film?

Ci hanno provato. Io ho studiato a lungo l’argomento: ho persino realizzato una video-installazione con le scene tagliate dalle pornochanchada. Posso dire che il potere in genere operava in due modi: censura politica e censura morale. In questo caso erano molto più interessati alla censura morale, perciò tagliavano parolacce o scene di gente che pisciava in strada. Volevano educare i brasiliani. La parte politica era messa di lato per il semplice motivo che questi film non erano considerati politici… All’archivio fotografico di San Paolo, mentre lavoravo con Maximo Barro, ricordo di aver visto un film violentissimo, con diverse scene di tortura, chiamato E Agora José? Il titolo è preso da una famosa poesia dal contenuto politico. Il sottotitolo, invece, è Tortura do Sexo. Bene, questo film venne distribuito nel 1979 senza tagli.

Sembra quasi che i censori dell’epoca non capissero i film che venivano loro sottoposti.

La censura militare guardava tutti i film, ma non aveva abbastanza personale, perciò ben presto iniziarono a collaborare uomini e donne che non avevano nulla a che fare con l’esercito. Uno dei censori più noti era la moglie di un generale, una casalinga di Brasilia senza alcuna esperienza.

Quindi molti film vennero salvati dall’ignoranza dei censori?

Sì, di fatto sì (ride).

Ma com’è possibile che in film simili siano iniziati a comparire personaggi così fuori dagli schemi, battute pesantemente satiriche e situazioni basate su episodi di cronaca?

Anche questo è contraddittorio… In E Agora José?, per esempio, c’è una scena in cui viene ritrovato il corpo di un giornalista morto impiccato. Un chiaro riferimento alla morte di Vladimir Herzog, un giornalista e scrittore il cui omicidio è stato riconosciuto solo da poco, dopo quarant’anni.

E come c’è finita questa scena in una commedia sporcacciona in piena dittatura militare?

Il regista del film, Ody Fraga, era l’intellettuale della pornochanchada, il pensatore. Usava un sacco di musica classica e cercava sempre di inserire riferimenti politici nascosti.

Dunque i registi della pornochanchada sfruttavano il genere per fare altro? Addirittura per criticare il sistema?

In Brasile chi difende la pornochanchada sostiene che quei registi cercassero in realtà di fare film politici con messaggi subliminali. Io però non sono d’accordo. Ho visto oltre cento film del genere, e devo dire che sebbene tutti siano in grado di svelare aspetti molto seri e importanti del Brasile del periodo, il 90% lo fa involontariamente. Solo il 10% è dichiaratamente politico, ma nonostante ciò ci sono comunque donne nude.

Tutto ruota intorno a potere, sesso e denaro. E la sintesi di questi tre elementi è il corpo della donna.

Il corpo è ovunque.

In un certo senso, però, siamo oltre lo sfruttamento. La donna, anche se sfruttata, è più forte dell’uomo.

Lo è, sì. Sono film molto sessisti, in cui il corpo femminile è merce di scambio: le donne hanno il sesso e gli uomini hanno denaro e potere. C’è un personaggio, in una scena che ho utilizzato, che offre un milione di cruzeiro solo per toccare il sedere di una ragazza. Mentre in un’altra scena viene pronunciata una frase che trovo molto scioccante: “voi donne siete fortunate perché siete nate con un libretto degli assegni tra le gambe”… Nella pornochanchada c’erano donne che cercavano di abortire – e l’aborto in Brasile è proibito ancora oggi -, donne che volevano il divorzio, donne che sfruttavano lavoratori uomini. L’erotizzazione dei rapporti di lavoro è una caratteristica della società brasiliana che risale alla dominazione portoghese, a quando i coloni sfruttavano gli schiavi e le serve. Nella pornochanchada, infatti, le cameriere sono feticci, donne quasi sempre nere e dalle forme voluttuose.

Corpi tutt’altro che passivi. Anzi, direi dalla sessualità piuttosto aggressiva.

Sì, anche perché quelli erano gli anni della rivoluzione sessuale. Molti personaggi sono giovani donne che scoprono di essere libere, di poter avere rapporti e usare il loro corpo a piacimento.

Prima accennavi all’aborto, che è ancora un tabù… Il tuo film guarda indietro, ma parla anche del presente. La sensazione è che il Brasile non sia cambiato poi molto.

No, non è cambiato… Molti guardano il mio film e mi dicono proprio quanto sia impressionante il fatto che noi brasiliani non siamo cambiati. Siamo ancora sessisti, siamo ancora razzisti, siamo ancora omofobi. In più abbiamo una situazione politica complicata. Durante la lavorazione del film Dilma Rousseff è stata deposta con un metodo molto discutibile, che sembra legale ma in realtà non lo è. Quindi, pur non vivendo in una dittatura, abbiamo un governo illegittimo, cosa che dimostra quanto la nostra democrazia sia fragile. Dal 1986 ad oggi, la democrazia l’abbiamo soltanto intravista.

Alcuni politici brasiliani contemporanei sarebbero a loro agio in una commediaccia anni Settanta, non trovi?

Oh, Michel Temer…

Il presidente.

Faccio fatica a chiamare Temer presidente. Vedi, quando facevo ricerche sul colpo di stato del 1964 mi sono chiesta perché all’epoca nessuno avesse reagito. Poi l’ho rivisto accadere nel 2016, ma senza esercito, e finalmente ho capito… Non abbiamo saputo resistere. E’ una situazione folle.

E tra trenta o quarant’anni, quali film pensi che potrai smontare e rimontare per far capire al pubblico il Brasile del 2017? C’hai pensato?

In tanti se lo sono chiesto… Oggi abbiamo delle commedie di enorme successo, tutte finanziate da Globo. I critici parlano di nuova chanchada. Sono certamente dei riflessi del presente, ma serve comunque una distanza storica per capire il fenomeno.

Sotto sotto però speri che un altro Stories Our Cinema Did (Not) Tell non sia necessario, vero?

Spero proprio di no! (ride)

Massimo Lechi

 

 

Postato in Thessaloniki Documentary Festival 2017.

I commenti sono chiusi.