di Renato Venturelli.
All’ultimo festival di Cannes era passato nella sezione “Un certain regard”, adesso è candidato all’Oscar come miglior film, oltre che per la sceneggiatura, il montaggio e l’attore non protagonista (Jeff Bridges). Ma nelle sale italiane non abbiamo potuto vederlo, perché come molti titoli di genere – polizieschi, western, noir, thriller – che passano nei grandi festival, e che potrebbero quindi avere l’etichetta sia della qualità sia del grande pubblico, è stato scartato dal mercato. Era successo per “Cold in July”, è successo per “The Homesman” di Tommy Lee Jones, continua a succedere ogni anno per almeno una decina di ottimi film, con registi come Jeremy Saulnier che sono ad esempio del tutto inediti da noi: le sale italiane sono da qualche tempo off limits per questo tipo di film, che costituiscono per molti aspetti il cuore “adulto” del cinema americano e della sua tradizione, ma che qui escono direttamente in tv, in rete o sul mercato homevideo.
Con “High or Hell Water” siamo davanti a un esempio tutto contemporaneo di “country noir”, intriso di cinema settantesco, realizzato a partire da una sceneggiatura scritta dal Taylor Sheridan di “Sicario”. Protagonisti, due fratelli trentenni del West Texas, che alla morte della madre stanno per perdere la casa e la proprietà di famiglia, risucchiata da una banca. Decidono così di mettersi a rapinare proprio le filiali più sperdute di quella banca, colpendo nelle cittadine più minuscole, all’alba, quando c’è da vedersela con pochi clienti e pochi impiegati, facendosi sempre dare banconote di piccolo taglio.
I due fratelli hanno carattere opposto, uno è pregiudicato e col gusto per l’avventura criminale, l’altro è taciturno, separato dalla moglie, coinvolto nelle rapine per protezione verso i propri figli (“sono stato povero tutta la vita, è come una malattia che passa di generazione in generazione”). Ma accanto a loro, il film segue un’altra coppia maschile: quella formata dal Texas Ranger Jeff Bridges, ormai alle soglie della pensione, e dal suo vecchio amico e collega Gil Birmingham, mezzo Comanche e mezzo messicano, alle prese con continue dispute a base di battibecchi, battutacce razziste e lunghi silenzi.
Lo sfondo è quello di un’eterna America profonda, un West assolutamente attuale anche nelle sue allusioni alla crisi economica, ma al tempo stesso carico di una lunga memoria cinematografica, con i piccoli proprietari spogliati a poco a poco dalle banche, le cittadine semideserte, il locale dove la vecchia cameriera serve da cinquant’anni solo T-bone, il paesaggio piatto e sconfinato, la sensazione di un mondo di ruvido individualismo ormai allo stremo. Fino a 150 anni fa queste terre appartenevano ai miei antenati – dice il ranger Comanche, indicando una banca – finché i nonni di questa gente ce le hanno strappate, e adesso gliele prendono a loro: ma per farlo non ci vuole più nemmeno l’esercito… Quando i due rapinatori calano all’alba sulle loro banche, la regia dello scozzese David Mackenzie cita apertamente le luci del Charley Varrick di Don Siegel, ma quando uno dei fratelli si attira gli inseguitori su per un monte pietroso il rimando è al Raoul Walsh di “Una pallottola per Roy”. Ed è per certi versi l’ennesimo “ultimo spettacolo” ad andare in scena, attraversato da continue immagini di morte, contrappuntato dal seppellimento nel terreno davanti alla casa delle auto usate in ogni rapina, scandito da un rapporto intenso tra i personaggi e il paesaggio, un po’ alla maniera del “Texasville” di Bogdanovich.
Come tanti country noir, anche “High or Hell Water” oscilla tra diversi generi, un po’ western crepuscolare, un po’ film di rapine, un po’ road movie, un po’ buddy buddy e dramma familiare, caratteristica che del resto Luc Moullet riconosceva a tutto il cinema di genere americano, capace di essere per sua natura una cosa ma al tempo stesso anche qualcos’altro, e qualcos’altro ancora. Qualcuno ha obiettato che è fin troppo compiaciuto nell’affiancare cliché risaputi, citazioni scontate, e a questo va aggiunto anche il gusto tipico del neo-noir per una sceneggiatura molto scritta, piena di battute ostentatamente arzigogolate, calcolatissima nel mosaico di allusioni, ma anche anche nel suo finale aperto, dove la sospensione investe la storia e le coscienze. Ma è forse destino che da Dominik a Hillcoat o Mackenzie, molti degli ultimi frequentatori di queste formule del cinema americano siano registi stranieri, in cui l’amore e l’attrazione si uniscono a uno sguardo parzialmente esterno: “Hell or High Water” resta forse un po’ troppo un “omaggio”, ma è un omaggio a un cinema amato e accoratamente rivissuto.
Hell or High Water
(id., USA 2016) regia: David Mackenzie; sceneggiatura: Taylor Sheridan; fotografia: Giles Nuttgens; montaggio: Jake Roberts; interpreti: Chris Pine (Toby Howard), Ben Foster (Tanner Howard), Jeff Bridges (Marcus Hamilton, Texas Ranger), Gil Birmingham (Alberto Parker), Marine Ireland (Debbie), Katy Mixon (Jerry Ann, cameriera), Margaret Bowman (cameriera di T-Bone); produzione: Sidney Kimmel & Oddlot; durata: 1 ora e 42 minuti