“Silence” di Martin Scorsese

di Aldo Viganò.

Suggerita solo all’inizio da poche inquadrature dall’alto, la trascendenza è di fatto la vera assente dal film che Martin Scorsese ha dedicato con passione e personale coinvolgimento al tema filosofico-religioso del “silenzio” di Dio. Di fatto, il vero protagonista di Silence resta l’uomo (soprattutto l’uomo occidentale) con le sue debolezze ma anche con la sua grandezza, con la sua fragilità e le sue paure, con la sua inadeguatezza alla fede nel contesto di una contingenza storica che inevitabilmente lo spinge all’abiura o all’assunzione di comportamenti che lo rendono in modo inesorabile sempre più simile a Giuda che al Cristo.

Erano quasi trent’anni (cioè, dai tempi di L’ultima tentazione di Cristo) che Scorsese cercava di portare sul grande schermo il romanzo scritto nel 1966 dall’autore giapponese (convertitosi al cattolicesimo) Shūsaku Endō, nel cui apologo storico, ambientato verso la metà del Seicento, il regista aveva individuato non solo l’affinità con un personale tragitto individuale (la giovanile rinuncia a farsi prete, preferendo infine il cinema all’abito talare), ma anche la materia per un grande spettacolo per immagini che gli permettesse di raccontare un viaggio interiore, lasciandosi suggestionare dalle affinità del romanzo di Endō con Cuore di tenebra di Conrad, e quindi anche con Apocalypse Now di Coppola.

Infatti, come in Cuore di tenebra ambientato in Africa o in Apocalypse Now che si svolge in Vietnam, anche in Silence, il tema centrale è quello del viaggio (in questo caso compiuto da due giovani gesuiti portoghesi, interpretati dagli attori Andrew Garfield e Adam Driver) in un territorio ostile (qui il Giappone governato dal movimento anticattolico) alla ricerca di un loro confratello più anziano (Liam Neeson) del quale da tempo non si avevano più notizie. Ma le affinità tra le tre opere di fatto finiscono qui, anche perché risulta subito chiaro che tematicamente a Scorsese interessa soprattutto raccontare un percorso dell’anima, un tragitto di coscienza,  l’arrovellamento di un cattolico moderno nei suoi rapporti con la fede e con Dio.

Se questa è la sua dichiarata intenzione, accade poi, però, che, sul piano squisitamente estetico, quello che infine si afferma sullo schermo è l’intrigo complesso tra  paesaggio e personaggio: il rapporto tra visione e pensiero, che di fatto nel film diventa articolata dialettica tra cinema e religione, tra vocazione artistica e personale travaglio alla ricerca della verità.

Silence s’impone così come un’opera cinematografica molto ambiziosa ed estremamente complessa, comunque sempre originale. Forse a volte anche un po’ ripetitiva e sovente priva di sintesi, ma sempre un film illuminato da grandi sequenze d’autore (la crocefissione iniziale dei gesuiti e quella dei contadini con l’alta marea, i fedeli giapponesi costretti dal dittatoriale potere politico a vivere nelle condizioni dei primi cristiani, ad esempio) e improvvisamente ravvivato dalla presenza di personaggi non facilmente dimenticabili, come l’ondivago Kichijiro di Yōsuke Kubozuka, diviso tra la tentazione del tradimento e il bisogno di confessare le proprie colpe, o come il sorridente governatore di Issei Ogata, che assume sovente il ruolo di un inquietante e machiavellico burattinaio dell’esistenza altrui.

Componenti queste che, nonostante tutto, concorrono a rendere Silence un film che affascina soprattutto perché in ogni suo passaggio narrativo e in ogni sua immagine si avverte che Scorsese sta comunque facendo del cinema e parlando per immagini (argomento oggi sempre più raro sugli schermi contemporanei); tanto che non è difficile perdonargli sia il carattere fondamentalmente autobiografico dell’assunto narrativo, sia i limiti che nascono da una certa prolissità del suo svolgimento.

Il giudizio estetico su Silence resta così nel complesso contraddittorio. Da una parte, c’è l’intrigante fascino dell’opera personale di un grande regista cinematografico; dall’altra, emerge il dubbio che Scorsese abbia finito col rimanere prigioniero – sia a causa della troppo lunga convivenza con l’argomento, sia per i mai dismessi tormenti privati – dell’elemento tematico affrontato, con il risultato che la sua cinepresa stenta più volte a trovare la giusta distanza dalla materia narrata e sfocia anche in risultati ripetitivi, dettati forse dalla paura di non capire il mistero della fede: oltre che dal costante dubbio di non riuscire a farsi capire nell’ambizioso progetto di raccontare questo mistero.

Ne consegue un film dalle evidenti contraddizioni, le quali comunque non impediscono a Silence d’imporsi come un’opera fondamentale per comprendere il percorso interiore che attraversa tutta la  filmografia di Scorsese, anche un’opera sovente lontana dalla limpidezza artistica che il regista aveva dimostrato di saper raggiungere in film esteticamente più compatti, quali sono stati i memorabili Quei bravi ragazzi o Gangs of New York, ma anche l’inquietante The Wolf of Wall Street.

 

SILENCE

(Silence, USA, Taiwan, Messico, Italia, Gran Bretagna, Giappone, 2016) Regia: Martin Scorsese – Sceneggiatura: Jay Cocks e Martin Scorsese, dal romanzo omonimo di Shūsaku Endō – Fotografia: Rodrigo Prieto – Musica: Kim Allen e Kathryn Kluge – Scenografia: Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo – Costumi: Dante Ferretti – Montaggio: Thelma Schoonmaker.  Interpreti: Andrew Garfield (padre Sebastião), Adam Driver (padre Francisco Garupe), Liam Neeson (padre Cristóvão Ferreira) – Tadanobu Asano (l’interprete), Yōsuke Kubozuka (Kichijiro), Issei Ogata (Inoue Masahige).  Distribuzione: 01 Distribution – Durata: due ore e 41 minuti

 

 

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