di Giulio D’Amicone.
Diversi anni fa, compì il suo ingresso nella sede RAI per l’Abruzzo un signore sulla cinquantina, di altezza media e di bell’aspetto, venuto a proporre un programma imperniato sulla figura di uno scrittore teatino poco conosciuto, Giuseppe Mezzanotte. Quel signore era Tonino Valerii. Poiché svolgevo allora le mansioni di programmista, non mi lasciai scappare l”occasione: chiesi e ottenni di essere assegnato alla produzione, in modo da seguirlo (anzi tallonarlo) per l’intera durata delle riprese, che si svolsero in diverse località abruzzesi, oltre a una tappa a Napoli per intervistare un docente universitario.
Aveva le idee chiare, Tonino Valerii: di modi semplici, mai aggressivo ma neppure confidenziale. Quando ci fermavamo per la tipica pausa caffè, lui lo sorseggiava appena, poi posava la tazzina e senza por tempo in mezzo ordinava: “Andiamo avanti”. Al primo “Nun se po’ fa” spalancò gli occhi e rispose: “Queste cose non le voglio sentire”. A pranzo un componente della troupe gli raccontò di aver compilato una tesina in cui “distruggeva la figura del regista” aggiungendo “mi dispiace”: Tonino lo fissò quietamente e senza neppur degnarlo di un sorriso si servì di un’altra forchettata di spaghetti.
Dispiace non poter ricordare tutti gli episodi di cui mi fece parte, a proposito sia di se stesso sia di molti colleghi. Era il rampollo di una facoltosa famiglia di latifondisti teramani: quando comunicò al padre il proposito di dedicarsi al cinema, si sentì rispondere: “In casa nostra non ci sono mai stati commedianti”. Ma dopo la morte del genitore si scoprì che nella scrivania questi aveva nascosto tutte le recensioni dei film del figlio!
Ad ogni modo, il giovane attuò il suo proposito diplomandosi al Centro Sperimentale sotto la guida di Alessandro Blasetti. Nel suo apprendistato troviamo esperienze di aiuto regista accanto a Sergio Leone: fu girata da lui la breve scena di Per qualche dollaro in più in cui Van Cleef consulta un giornale che riporta notizie sul Monco. Ho sempre sostenuto (anche nel mio libro Vamos!) che il film con cui esordì, Per il gusto di uccidere (1966), possa considerarsi la sua migliore riuscita per la ricchezza dell’inventiva: il cannocchiale in dotazione al protagonista Craig Hill, con cui le inquadrature vengono sovente “raddoppiate”; lo specchio utilizzato dal tipico vecchietto per segnalare all’eroe il momento di entrare in azione; lo scontro conclusivo col proiettile che attraversa proprio il cannocchiale forando il bulbo oculare del villain.
Al successivo I giorni dell’ira (1967) s’addice invece maggiormente l’aggettivo “corretto”: sebbene infatti l’opera, girata con un budget ragguardevole, non manchi di invenzioni (lo scontro a cavallo in cui Van Cleef utilizza un’arma a pallettoni), la trama soffre di una certa prevedibilità. Cosa che invece non si può affermare del Prezzo del potere (1969) in cui vediamo Van Johnson nei panni addirittura del Presidente degli Stati Uniti: ma lo scarso successo della pellicola denuncia che forse in questo caso si era compiuto il passo più lungo della gamba. Ugualmente (se non più) ambizioso è Una ragione per vivere, una per morire (1972), che vede nel cast grandi attori come James Coburn e Telly Savalas (e fu sceneggiato, oltre che dal regista e dal fedele Gastaldi, da Rafael Azcona): opera che contiene, sopratutto nella parte finale, sequenze apprezzabili, ma il cui risultato fu compromesso dai cattivi rapporti tra regista e interpreti.
Per tutta la vita il regista fu costretto a difendersi dalle accuse di essere stato un semplice prestanome relativamente al successivo Il mio nome è nessuno (1973), che rappresentò il maggior successo della sua carriera: ma i tempi adottati non hanno la ieraticità tipicamente leoniana. Purtroppo il film – che svolge com’è noto un discorso sui rapporti tra western originario e derivazione nostrana – non manca di cadute di gusto (che provocarono l’indignazione di Tullio Kezich): e forse proprio qui è ravvisabile la longa manus di Sergio Leone.
Peraltro Valerii non si dedicò solo al western: la sua solida professionalità gli consentì di spaziare in diversi campi, ottenendo buoni risultati nel giallo (Mio caro assassino), nel poliziesco (Vai gorilla, tra l’altro l’ultima interpretazione di Al Lettieri) e nell’avventuroso (Sahara cross), mentre risultò meno convincente quando volle affrontare temi legati all’erotismo (La ragazza di nome Giulio, Senza scrupoli). Ogni tanto la padronanza tecnica si estrinsecava in trovate che sembrano escogitate per la delizia dei cinefili, come la scena dell’ascensore in Vai gorilla (in cui utilizzò sapientemente il chroma-key); o i piani-sequenza contenuti in Sahara cross, effettuati con un’allora nascente steadycam; o il celebre dolly evidenziante la solitudine dell’ultimo gunfighter in Il mio nome è nessuno (accostabile, fatte salve le differenze, a quello creato da Carpenter all’inizio di Halloween, nel momento in cui i genitori di Michael tolgono la maschera dal viso del bambino).
La seconda parte della sua carriera, che lo vede molto presente in televisione, è più appannata, anche per il carattere del personaggio che non amava farsi propaganda: ma non sono da sottovalutare né Sicilian connection (1987) né Una vacanza all’inferno (1997), con Giancarlo Giannini e il grande Murray Abraham.
In conclusione, con la morte di Tonino Valerii (1934-2016) si è perso uno degli ultimi esponenti di quel tessuto connettivo che costituiva la base da cui potevano ergersi le opere dei nostri grandi. Finché sono esistiti.
Giulio D’Amicone