di Massimo Lechi.
Con i suoi quattro decenni di storia e il suo tappeto rosso srotolato a poche centinaia di metri dal traffico di Piazza Tahrir, il Cairo International Film Festival è una delle manifestazioni più importanti del panorama cinematografico arabo. Spazio di laicità e condivisione in un paese attraversato da tensioni crescenti, il festival capitanato da Magda Wassef guarda fuori dai confini nazionali e continentali, verso l’Europa e l’Asia, forte di quello spirito cosmopolita che ancora anima un segmento rilevante della società egiziana.
A differenza di quanto avviene in Tunisia alle Journées Cinématographiques de Carthage, interamente dedicate al cinema africano e mediorientale, al Cairo i selezionatori prediligono titoli internazionali di sicuro richiamo. Per rendersene conto, basta un rapido sguardo ai nomi che si sono susseguiti fuori concorso durante i dieci giorni (15 – 24 novembre) di questa trentottesima edizione: Xavier Dolan, Brillante Mendoza, Maren Ade, Stephen Frears, Emir Kusturica, il Marco Bellocchio del sottovalutato Fai bei sogni e persino Michael Moore, con le iperboli di Where to Invade Next. Certo, non sono mancate le occasioni per scoprire la produzione locale: importanti, in questo senso, sia l’omaggio a Mohamed Khan, celebre regista cairota da poco scomparso, sia la rassegna New Egyptian Cinema. Ma è indubbio che, a risaltare nel programma, siano stati soprattutto film già noti alla stampa, reduci da passaggi più o meno fortunati nei concorsi di Cannes e Venezia, e perciò in grado di attrarre tanto i cinefili quanto il pubblico più colto della capitale.
La dominante della competizione internazionale è stata nera, talvolta nerissima, con una massiccia presenza sugli schermi di vicende tragiche e di personaggi borderline, collocati in scenari di degrado, di crisi materiale ed esistenziale profonda. Se la Piramide d’oro è andata all’affascinante western sufi Mimosas dello spagnolo Oliver Laxe, girato tra i monti dell’Atlante, e quella d’argento ha riconosciuto il talento del maturo regista brasiliano Licínio Azevedo, in gara con The Train of Salt and Sugar, affresco del Mozambico dilaniato dalla grande guerra civile, il terzo premio è finito tra le mani dell’ungherese Attila Till. Il suo Kills on Wheels, sghembo gangster movie venato di ironia, segue due ragazzi disabili che accettano di formare una banda omicida con uno scalcagnato sicario in carrozzella, trovando finalmente una ragione di vita nel crimine. Esecuzione dopo esecuzione (si spara dal basso, spesso tenendo la pistola in un sacchetto di plastica), Till riflette sulla figura paterna e sulla necessità del perdono, realizzando un film tanto astuto quanto vibrante, con un trio di interpreti convincenti e spericolati – specie considerate le reali disabilità dei due protagonisti più giovani.
Altro anomalo film di genere, rimasto però fuori dalla lista dei premi, Dogs di Bogdan Mirica alterna aridi paesaggi in campo lungo, volti patibolari ed esplosioni di violenza in una tesa atmosfera da western balcanico. La compassata regia dell’esordiente rumeno trasforma la campagna della Dobrugia in una landa desolata, priva di orizzonte e coordinate precise, in cui i personaggi appaiono e scompaiono nel silenzio, e la minaccia avanza lenta e inesorabile come un castigo di Dio. Il risultato è una parabola nichilista che, ai dilemmi morali tipici del cinema d’interni di Cristian Mungiu e Călin Peter Netzer, sostituisce una primordiale e altamente simbolica lotta per la terra. Sotto lo sguardo impassibile di un poliziotto devastato dal cancro (l’indimenticabile Gheorghe Visu, in un ruolo che ricorda il Tommy Lee Jones di Non è un paese per vecchi), i protagonisti di Dogs regolano così i loro conti nel sangue, riducendosi a bestie, a cani rabbiosi da abbattere senza esitazione.
Ad abbrutirsi – in parte, almeno – è anche la protagonista di Anna’s Life, debutto dietro la macchina da presa della scrittrice georgiana Nino Basilia. Snobbato dalla giuria presieduta da Christian Petzold, ma ricompensato con il Premio FIPRESCI, questo piccolo, imperfetto e sincero film racconta la caduta di una giovane, madre divorziata di un bambino autistico, che si fa portare via fino all’ultimo centesimo da un oscuro mediatore il quale le ha promesso un visto falso per gli Stati Uniti. Disperata, ridotta sul lastrico, decide quindi di vendicarsi rapendo la figlia del truffatore, con esiti prevedibilmente disastrosi. Nel mettere in scena i tormenti di Anna, donna sola in una Tbilisi impoverita dalla crisi economica, Basilia ricorre a un pedinamento e a un naturalismo piuttosto convenzionali ma, complici l’eccellente performance di Ekaterine Demetradze e un’innegabile delicatezza di tocco registico, riesce a non perdere mai il filo della narrazione e a dare dignità e un po’ di respiro ai suoi personaggi.
Molte storie estreme nel concorso del Cairo International Film Festival, dunque. Molto dolore, molti conflitti radicali – e il più delle volte irrisolvibili. Eppure non stupisce che, alla fine, il titolo di maggior successo si sia rivelato l’italiano Perfetti sconosciuti, diretto da Paolo Genovese. Pièce corale sulle ipocrisie di un gruppo di amici e sull’eterno inevitabile incontro-scontro tra i sessi, il film ha ricevuto il Premio Naguib Mahfouz per la miglior sceneggiatura e un’accoglienza entusiastica da parte degli spettatori, evidentemente conquistati dall’implacabile precisione del congegno narrativo. Come dimostra anche il recente trionfo di Paolo Virzì al serissimo festival di Valladolid (miglior film, migliori attrici e Premio del Pubblico a La pazza gioia), una storia dolceamara, scritta con abilità e confezionata con cura, può risultare il mezzo più diretto ed efficace per entrare in sintonia con platee lontane. Dove non consentono di arrivare le pretese di autorialità, spesso, piaccia o no, arriva una commedia.
Massimo Lechi