Raccontare con la luce – Intervista a Yorgos Arvanitis

arvanitis-giorgosdi Massimo Lechi.

La brillante sesta edizione dell’International Short Film Festival di Cipro, tenutasi dal 15 al 21 ottobre a Limassol, seconda città della Repubblica greco-cipriota, ha potuto vantare un ospite di eccezionale riguardo. A presiedere la giuria è stato infatti chiamato il celebre direttore della fotografia Yorgos Arvanitis, protagonista per l’occasione anche di una master class aperta al pubblico, dal titolo Digital technology in cinema today. Alexia Roider e Ioakim Mylonas, la coppia di direttori artistici che, con il pieno sostegno del Ministero dell’Educazione e della Cultura, trasforma ogni anno il centralissimo Rialto Theatre in una vetrina per i talenti del cortometraggio internazionale, hanno dunque puntato alto, sottoponendo i lavori di giovani filmmaker alla sensibilità e all’intuito di un artista cui si devono atmosfere e composizioni cinematografiche tra le più affascinanti.

Passo rapido, umorismo contagioso e l’eterna barba ormai bianca, Arvanitis è un uomo inquieto e curioso che vive con leggerezza la condizione di leggenda vivente del cinema greco. Attivo come operatore sin dagli anni Sessanta, ha disegnato luci e creato inquadrature di strenua eleganza in più di cento film, legando il suo nome prima a Theo Angelopoulos e, in seguito, a una sterminata serie di personalità registiche, tra cui Michael Cacoyannis, Jules Dassin, Volker Schlöndorff, László Benedek, Randa Chahal Sabag, Jean-Pierre e Luc Dardenne, Amos Gitai, Jean-Jacques Andrien, Agnieszka Holland, Marco Bellocchio, Pantelis Voulgaris, Catherine Breillat, Mehdi Charef e Frederick Wiseman.

Davanti alla sua macchina da presa hanno recitato Harvey Keitel, Jeanne Moreau, Fanny Ardant, Charlotte Rampling, Bruno Ganz, Jeremy Irons, un giovanissimo Leonardo DiCaprio e tutti i più famosi attori greci, Melina Mercouri compresa. Nel rievocare aneddoti e passaggi decisivi, dal cupo periodo della Giunta dei colonnelli fino al trasferimento con la famiglia in Francia (paese di cui è da molti anni cittadino), le parole più affettuose sono però sempre per Marcello Mastroianni. La loro amicizia, nata durante la lavorazione de Il Volo (1986), rimanda a una stagione straordinaria e per molti versi irripetibile del cinema d’autore europeo, a cui è impossibile non guardare con nostalgia.

Oggi, a settantacinque anni, il direttore della fotografia di Paesaggio nella Nebbia (1988) e Lo Sguardo di Ulisse (1995) divide il suo tempo tra Atene e una fattoria fuori Parigi. Si diverte a citare – rigorosamente in italiano – le freddure ciniche con cui lo sorprendeva un altro amico scomparso, Marco Ferreri, e non ha difficoltà ad affrontare con franchezza anche gli episodi spiacevoli di una carriera fatta, oltre che di immagini instancabilmente lavorate e meditate, di incontri artistici imprevisti e imprevedibili. Incontri che, nonostante gli impegni derivanti dalla carica di presidente del Festival di Salonicco e i seminari in giro per l’Europa, continuano a prodursi con regolarità. Il set, con le sue fatiche e le sue delusioni, è ancora al centro di tutto. E in attesa di nuovi “miracoli” – come ama definire le sorprese felici che il cinema è talvolta in grado di riservare a chi è affamato di novità e vuol mettersi in gioco – con Blind Sun (2015) di Joyce A. Nashawati sono recentemente arrivati premi importanti da Bruxelles e Toronto, mentre il film in costume Fanny Lye Deliver’d di Thomas Clay prende forma in postproduzione.

A Limassol, nei caldi giorni dell’International Short Film Festival, parlare con lui del suo percorso umano e professionale,  chiedergli delle folgorazioni del passato e delle passioni del presente, ha significato attraversare quasi sei decenni di cinema in una lunga, fluida carrellata.

Inizierei con il festival che ci sta ospitando. E’ stimolante per lei quest’esperienza da presidente di giuria?

Ah, non c’era bisogno di questa domanda… Certo che lo è! Sono molto contento perché sono circondato da persone che amano il cinema. Questo è un festival vivace, ed è un onore per me parteciparvi come presidente della giuria. E i cortometraggi, in generale, sono decisamente interessanti.

C’è una differenza fondamentale tra lei e i registi che stanno presentando qui a Limassol i loro lavori: Yorgos Arvanitis è un uomo di un’altra generazione.

E’ vero che appartengo a un’altra generazione, ma cerco sempre di stare vicino ai giovani, principalmente perché voglio capirli. In tutta la mia carriera da direttore della fotografia, la maggior parte delle collaborazioni cinematografiche sono state con registi agli inizi. Questo da un lato non mi fa sentire troppo anziano e dall’altro mi permette di non perdere l’energia necessaria per ricominciare ogni volta da capo.

L’incontro con Theo Angelopoulos è avvenuto proprio in occasione di un cortometraggio, La Trasmissione. Come ci è arrivato?

Non è stato un incontro casuale. Quelli erano anni di grande entusiasmo per i cortometraggi: molti li realizzavano per poter passare subito al lungo, come oggi, e contemporaneamente c’era chi cercava con essi di creare qualcosa di nuovo, di sperimentare. Non c’erano molti soldi e ognuno si industriava per produrre il proprio cinema. All’epoca lavoravo alla Finos Film, una casa di produzione molto famosa, specializzata in musical e commedie. Angelopoulos venne dalla Francia, dove faceva il critico in un giornale, e mi chiese se ero interessato a collaborare con lui. Accettai subito. Da allora diventammo Angelopoulos & Arvanitis.

Era un periodo molto duro per la Grecia.

Sì, molto duro… Per prendere parte a Ricostruzione di un Delitto, il primo lungometraggio con Theo, chiesi alla Finos un permesso, non pagato, di un mese. Realizzammo il film in trentasei giorni, se ricordo bene. Ed eravamo in quattro: io, lui e i nostri assistenti, con una sola luce professionale, in montagna. Il film cambiò la mia vita. Creai un modo di fare fotografia completamente nuovo, ma fu una cosa del tutto spontanea. Venivo infatti da Dilofo, un paesino che era stato devastato dalla guerra, con in più una famiglia in rovina: da bambino non avevo mai visto il sole. Arrivato sul set, avevo in mente immagini grigie e nere.

La sua passione per il bianco e nero è nota.

Ma nessuno me lo fa fare! I miei primi lavori sono stati a colori. Poi sono passato al bianco e nero, e non mi piaceva per niente quello che si faceva alla Finos. Sentivo che era sbagliato. Lo sentivo d’istinto – ho acquisito piena consapevolezza tecnica solo dopo… Ricordo una mattina al villaggio di Vitsa, dove giravamo il film con Theo: mi svegliai e la luce era incredibile, il cielo era molto basso e c’erano pietre ovunque, pietre che si fondevano perfettamente con le anime dei personaggi. Sentii che se avessi distrutto lo scenario che avevo davanti agli occhi, avrei fallito. Stampai il mio bianco e nero.

Avevate anche enormi difficoltà con i militari, immagino.

Certo, c’era la censura. Una sceneggiatura doveva avere un timbro su ogni foglio… E Theo iniziò Ricostruzione di un Delitto con sette pagine! Ma ricordo tanti altri problemi. Per esempio, mentre girammo la sequenza in cui alcuni personaggi cantano canzoni di sinistra e altri canzoni di destra, qualcuno chiamò la polizia. Gli agenti arrivarono e noi facemmo finta di dover registrare solo le canzoni di destra. Non appena se ne andarono, registrammo gli inni socialisti.

Lei e Angelopoulos eravate due persone totalmente diverse: l’intellettuale cinefilo espatriato e l’artigiano autodidatta impiegato alla Finos Film.

Ho visto un film per la prima volta a quindici anni. Poi, un giorno, mi sono ritrovato su un set cinematografico, e io stesso non so spiegare come ciò sia potuto accadere… E’ stato solo dopo l’incontro con Theo che ho iniziato a considerarmi davvero un direttore della fotografia. Quando mi chiese di girare I Giorni del ’36 ero già impegnato su una commedia dalle sette del mattino alle tre del pomeriggio. Dissi a Theo che avremmo lavorato insieme dal pomeriggio a mezzanotte, e funzionò. Ma quando, finito il nostro film, tornai sul set della Finos, mi accorsi che nulla mi piaceva più: la scena, i colori, la luce stessa. E allora mi licenziai. I produttori mi avvertirono che avrei fatto la fame. Io risposi che sarei stato affamato, ma libero.

All’epoca dei vostri primi film era ancora forte l’influenza della Nouvelle Vague. Voi però sceglieste altre strade.

Mi sentivo molto influenzato dal pittore Tsarouchis. Ricordo che, mentre giravamo La Recita, trovai un diario con i suoi disegni e mi dissi: questa è la Grecia. Quindi no, niente Nouvelle Vague: volevo creare qualcosa di mio. Quando ero assistente, agli inizi della carriera, nel tentativo di capire il ritmo, presi lezioni di ballo. Tutti mi sfottevano, ma io volevo capire, impossessarmi del tempo… Se guardi un film di Angelopoulos, hai l’impressione che sopra la macchina da presa ci sia un metronomo: i nostri movimenti servivano proprio a fondere quelli dei personaggi senza interrompere la continuità della visione dello spettatore. E la luce non è una luce “tecnica”, ma interiore. Con colori naturali, concreti, terrosi, che sostenevo solo se strettamente necessario.

Luce naturale e movimenti di macchina che forzano il tempo. Quanto era difficile ottenere l’effetto?

Con Theo facevamo tantissime prove. Dovevi essere pronto a entrare nel suo ritmo… Non so se il mio fosse talento o istinto, ma spesso sembravamo due giocatori di tennis che si scambiavano la palla.

Un direttore della fotografia è co-autore del film?

Il nostro lavoro è scrivere con la luce. Raccontare la stessa storia che vuole raccontare il regista, solo con luce e macchina da presa.

So che ama molto la scuola italiana.

Sì, mi piace. E prima di tutto mi piace l’Italia perché c’è arte dappertutto. I direttori della fotografia italiani rischiano, hanno un carattere pazzo. Ho imparato molto da Nannuzzi, da De Santis, da Peppino Rotunno, dal grande Gianni Di Venanzo, da Tonino Delli Colli… E poi da Storaro, un grande talento. Il Conformista è il suo film che preferisco.

La scuola francese invece mi è sempre sembrata più piatta. Le immagini di Lubtchansky, per dirne uno, erano elegantissime, ma avevano poca profondità.

Vero. Non ho assolutamente nulla contro i francesi, ma sono molto più prevedibili. Non hanno quest’inventiva, questa follia degli italiani. Se guardi un film francese, la fotografia è sempre molto piatta, molto morbida. Anche nella pittura: loro non hanno avuto Caravaggio e i suoi contrasti.

Dopo il grande successo internazionale de La Recita, ha collaborato con Jules Dassin in A Dream of Passion e con Michael Cacoyannis in Ifigenia. Com’è andata?

Con Dassin mi sono trovato bene. Non c’erano tempo e location adatte a fare alcune cose a cui tenevo, ma è stata una collaborazione molto felice. Con Cacoyannis invece è andata diversamente: eravamo spesso in disaccordo perché aveva paura di uscire dai binari del classico. In Ifigenia volevo usare delle lenti che comprimessero la prospettiva, per oscurare il dramma e tenere la luce sullo sfondo, con un effetto flou simile a un gelato che si scioglie, dando l’impressione di un calore eccessivo. Questa tecnica ha richiesto un lungo lavoro di ricerca, ma purtroppo era l’opposto di ciò che voleva Cacoyannis.

Sul set di Dassin ha avuto a che fare per la prima volta con delle star femminili. Com’erano Ellen Burstyn e Melina Mercouri?

Un amico operatore, una volta, mi ha detto che per fare un buon lavoro devi far sembrare le donne bellissime [ride]… Quando Ellen Burstyn arrivava sul set, pronti a girare. Quando Melina Mercouri arrivava sul set, bordello [in italiano].

Da metà degli anni Settanta ad oggi, ha lavorato con tantissimi registi. Ma, almeno fino a L’Eternità e un Giorno, il rapporto con Angelopoulos non si è mai interrotto.

Mi chiamava sempre, e poi sentivo l’importanza di quello che creavamo insieme. Io e altri colleghi facevamo qualcosa di nuovo per il cinema greco, e con il regista che lo aveva cambiato. Con lui ho girato quattro film senza soldi, perché ero giovane e mi interessavano di più speranza e ambizione.

Questo non le ha impedito di lasciare la Grecia alla fine degli anni Ottanta.

Sono partito in un momento in cui il nostro cinema era in declino. Avevo solo due opzioni: fare pubblicità, cosa per me impossibile, e fare televisione, cosa che non mi piaceva affatto. Quindi ho lasciato il mio paese. Ma non volevo soltanto partire: volevo diventare un direttore della fotografia migliore, conoscere nuove culture. Devo rivelarti che io non ho fatto nessuna scuola di cinema. Da giovane ho iniziato a lavorare come elettricista e poi come assistente operatore, ma non avevo nessuna preparazione accademica. Sono entrato nel cinema per istinto.

Perché ha scelto la Francia?

Perché la Francia era l’unico paese in cui ancora si produceva del cinema. In Gran Bretagna e Germania poca roba, mentre i registi italiani stavano iniziando a lasciare il loro paese… Un giorno Jean-Jacques Andrien, un folle regista belga, mi chiamò per girare un film chiamato Australia. Durante la postproduzione in Francia mi resi conto di quanto il mio nome fosse conosciuto nei laboratori e allora, dopo aver vinto premi a Venezia per Australia e a Chicago per Paesaggio nella Nebbia di Theo, decisi di tentar fortuna lì. Nel frattempo mi avevano contattato dei produttori americani, ma non essendoci la prospettiva realistica di lavorare con Coppola o Scorsese, rifiutai filmacci con esplosioni e rimasi in Europa a fare film più piccoli.

Da quel momento lei è diventato un nomade della fotografia. La sua filmografia è ricchissima.

Ma non c’è stata programmazione: le cose sono accadute spontaneamente. Ho fatto alcuni film in Europa per vivere, e non perché essi rispecchiassero i miei ideali cinematografici… Una sera, ad Atene, ero con Marcello Mastroianni. Gli dissi che ero stufo, che volevo smettere. Mi rispose ammettendo che di tutti i film che aveva fatto solo una ventina erano valsi gli sforzi e la fatica, ma poi aggiunse che bisogna sempre essere pronti a cogliere l’opportunità per fare un bel lavoro. Queste sue parole mi hanno dato molto coraggio.

Eravate molto amici, con Mastroianni?

Sì, molto. Per tanti anni. Veniva spesso a mangiare da me: gli piacevano soprattutto la grappa e l’agnello al forno con patate [ride]… Ma quando si ammalò non andai a trovarlo in ospedale, perché non volevo vedere una persona diversa da quella che avevo conosciuto. Volevo ricordarmi di Marcello così com’era stato, conservare la sua immagine dentro di me.

In Italia ha lavorato due sole volte: con Bellocchio e Ferreri, a metà anni Novanta. So che sul set de Il Sogno della Farfalla ci sono stati problemi.

Ho incontrato Bellocchio in un momento strano della sua vita: all’epoca dipendeva dallo psichiatra Fagioli… Dopo la prima settimana di riprese in Italia chiesi di controllare il girato e mi risposero che Fagioli aveva visto il materiale e che non era necessario che lo vedessi anch’io. Poi Bellocchio è andato in Grecia e ha finito il film con suo figlio, senza chiamarmi. In seguito seppi il motivo dal direttore di produzione: a quanto pare mi ero lamentato del film. Ma io il film non l’avevo visto. E non l’ho visto nemmeno dopo, mai.

Nitrato d’Argento, invece, è stata un’esperienza felice.

Lavorare con Ferreri era il paradiso. Aveva grande senso dell’umorismo, ci siamo divertiti molto. Giravamo a Budapest e ricordo che lui conosceva tutti i ristoranti… Una volta gli portano una lista con i prezzi – il pane, eccetera. Arriva in fondo e fa: E le puttane? [in italiano]

Je Pense à Vous dei fratelli Dardenne, 1992. Che ricordo ha di loro?

Non era un buon film: troppo descrittivo. Non avevano ancora trovato il loro stile. Accettai di girarlo perché ero stato invitato da due giovani, e mi sembrava una buona occasione.

Sul set di Poeti dall’Inferno di Agnieszka Holland, del 1995, ha trovato un Leonardo DiCaprio alle prime armi.

Bella esperienza, con Agnieszka. Quello fu il mio primo film in costume girato in Francia. DiCaprio all’epoca era molto giovane e piuttosto immaturo, quindi non ero sicuro di come sarebbe risultata la nostra collaborazione. Ma rimasi subito colpito dal suo talento e dal modo in cui lui e David Thewlis erano entrati in sintonia. Poi, mentre eravamo a Gibuti, arrivò la notizia che era stato preso per Titanic. Brindammo.

Train de Vie di Radu Mihăileanu, altro film in costume di successo.

Con lui non ci siamo intesi… Ricordi la lunga scena in cui tedeschi e prigionieri scendono dal treno perché è il momento della preghiera? Doveva durare originariamente più o meno sette giorni, se non ricordo male, ma all’ultimo decisero che la avremmo girata in uno. Sapendo che gli ebrei pregano al tramonto, chiesi come avremmo fatto a realizzarla in un giorno solo: se, nel passaggio dalla luce del sole alla notte, tutto si ferma, anche la macchina da presa deve farlo. Mi risposero di usare dei filtri. Ribattei che lo avrei fatto volentieri, fossi stato Dio. Alla fine, dopo molte discussioni con la produzione, girai la scena con due macchine, tutta di fila, simile a un dipinto. Dal montaggio spedirono un fax dicendo che le riprese erano fantastiche, e da quel momento in poi il regista smise di parlarmi – per comunicare mandava l’assistente. Mi sostituì a una settimana dalla fine delle riprese, e quando me ne andai da Bucarest la troupe franco-rumena mi applaudì a lungo. Lì provai, per la prima volta, un senso di giustizia.

Amos Gitai e Catherine Breillat.

Con Amos spero di non dover lavorare mai più in vita mia: non lo apprezzo né come regista né come persona. Kedma è stata un’esperienza traumatica. Con Catherine spesso non ero d’accordo però, paradossalmente, ho ricevuto critiche eccellenti per quelle collaborazioni. In tutto abbiamo fatto tre film insieme, poi ho preferito chiudere il rapporto perché dopo l’ictus il suo carattere era cambiato.

Frederick Wiseman, La Dernière Lettre. In bianco e nero.

Bianco e nero, già. Incontro eccellente. Ho avuto dei problemi tecnici con lo sviluppo della pellicola, quindi non sono molto contento dell’immagine e dei colori. Ma il lavoro era molto interessante e sono convinto che lui sia uno dei più grandi di sempre.

Mi sorprende quanto questi film siano così diversi gli uni dagli altri. Crede che tutti questi incontri, questi cambiamenti di stile abbiano contribuito alla fine del suo sodalizio con Angelopoulos?

Sì, volevo allontanarmi perché sapevo che altrimenti sarei diventato un manierista. Volevo nuova gente, nuovi colleghi intorno a me. Theo usava sempre lo stesso décor, gli stessi luoghi, le stesse strade: tutto uguale, ogni volta. Era diventato molto ripetitivo, e c’era il rischio che lo diventassi anch’io. Io ho cercato sempre di fare qualcosa di diverso, di innovativo. Insieme a lui ci sono riuscito solo due volte: in Ricostruzione di un Delitto e in I Giorni del ’36.

Le ultime opere di Angelopoulos non le piacciono.

No. Le immagini sono bellissime, ma i film non mi convincono.

Secondo lei stava esaurendo l’ispirazione?

Penso fosse diventato un servitore della sua stessa leggenda. Per un regista c’è sempre il rischio di non riuscire a liberarsi del proprio stile, e lui era rimasto prigioniero dei sui campi lunghi, di queste inquadrature larghissime. Ne La Sorgente del Fiume non c’è modo di amare o detestare i personaggi perché, molto semplicemente, non li si vede. Nel film ci sono i laghi, le barche, le case, l’acqua… E allora? [in italiano]

Crede che i filmmaker che la cercano abbiano la speranza che, con la sua presenza e il peso della sua carriera, lei possa nobilitare i loro film?

Forse, ma appena mi incontrano si rendono conto che non è così. Cerco di far loro capire che io sono lì per aiutarli. Un buon film con una fotografia mediocre resta un buon film, e un brutto film con una buona fotografia resta un brutto film.

Le capita spesso di respingere i registi?

Quando Thomas Clay mi ha chiesto di girare La Grande Estasi di Robert Carmichael, film che poi è andato a Cannes, lui aveva ventiquattro anni e devo ammettere che all’inizio ho fatto di tutto per evitarlo, dicendogli che sarei stato libero solo dopo molti, molti mesi. Finché un giorno si è presentato a casa mia con un contratto e ho pensato: quest’uomo ha bisogno di me. Un’altra volta invece mi ha chiamato un giovane regista di cui non ricordo il nome. Eravamo in ufficio e lui stava in piedi, in posa da sceriffo. Ha iniziato: Signor Arvanitis, la fotografia, in un mio film, deve essere… L’ho interrotto subito: Sei anche direttore della fotografia? Allora fattela da solo.

I film che si producono adesso in Grecia le interessano? Lanthimos, Tzoumerkas e Tsangari, per citarne alcuni, stanno avendo successo all’estero.

A Parigi non arriva molto… Credo però che il cinema greco non abbia ancora trovato la sua identità. Di Lanthimos mi è piaciuto parecchio Dogtooth, ma non quello dopo. E poi lui se n’è andato, così non considero The Lobster un film greco. Quando dico cinema greco intendo un cinema che tratta i problemi della Grecia. Gli italiani fanno film sul loro paese, e lo stesso gli inglesi. I greci imitano.

E c’è ancora posto per Yorgos Arvanitis nel cinema greco?

Sono molto vecchio ormai, e vivo da ventotto anni in Francia. No, non penso che i giovani registi greci mi cercheranno più… Dopo il premio a Venezia qualcuno mi disse: Signor Arvanitis, non si dimentichi del cinema greco. Risposi: Credo proprio che sarà il cinema greco a dimenticarsi di me. Da allora, nel mio paese, ho girato tre film con Angelopoulos e poco altro.

Il Ministero della Cultura, però, l’ha nominata presidente del Festival di Salonicco.

E’ una cosa diversa. Io sono cresciuto nel cinema greco: per questo motivo, e dal momento che il ministro mi ha chiesto di persona se ero interessato alla sfida, ho accettato. Poi lo faccio volontariamente, senza essere retribuito. Sono felice di poter aiutare il Festival di Salonicco.

Pensa che il suo lavoro migliore sia alle spalle? 

Il mio lavoro migliore è davanti a me, nel futuro. Ma vediamo se arriverà o no.

 

Massimo Lechi

 

(l’autore dell’articolo desidera ringraziare per l’aiuto Diamanto Stylianou, interprete e traduttrice)

 

 

Postato in Interviste, ISFFC – International Short Film Festival of Cyprus 2016.

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