di Aldo Viganò.
La ragazza senza nome è firmato dai fratelli Dardenne, ma sembra un film girato da un anonimo cineasta cresciuto nel mito del cinema dei due registi belgi, del quale sa restituire il tono e i ritmi, forse anche la sempre latente tensione tra realtà ed etica, ma mai riesce cogliere l’umana verità che sottende le migliori opere degli autori di Rosetta e di Il figlio.
Questo per anticipare subito che, nonostante tutto il loro consueto rigore estetico e morale, questa volta i Dardenne hanno realizzato un’opera cinematografica più fallita che sbagliata, più noiosa che innovativa, più accademica che portatrice di qualcosa di nuovo nel loro personale mondo espressivo.
Il problema di La ragazza senza nome – film accolto con molte riserve a Cannes e maldestramente rimaneggiato per l’edizione destinata agli schermi internazionali – deriva innanzitutto dalla sua mancanza di un autentico afflato umano, che ha come non innocente concausa una sceneggiatura schematica la quale accetta di addentrarsi, pur a modo suo, all’interno del genere poliziesco, ma poi non sa o non vuole utilizzarne le possibilità drammaturgiche. Così che, sul piano narrativo, il film finisce con l’appoggiarsi esclusivamente sulla sua idea fondante (i sensi di colpa di una giovane dottoressa di Liegi per non aver risposto alla chiamata fuori orario di chi la mattina dopo si rivelerà essere una ragazza di colore trovata con la testa fracassata sull’argine della Mosa); mentre i personaggi di contorno, semplici corollari dell’unico plot esistente (quello parallelo dello stagista Julien in crisi d’identità è di una banalità disarmante), restano indeterminati o prigionieri dei fatti di cronaca medica da cui sono stati scrupolosamente tratti senza però lasciarli conquistare una vera autonomia: né umana, né stilistica.
Autori di un cinema formalmente realistico e obbediente ai dettami zavattiniani del “pedinamento”, nelle loro prime opere i Dardenne avevano comunque saputo ricavare dalle loro insistite “semi-soggettive a seguire” un preciso rapporto tra i personaggi e il paesaggio naturale, accentuando così la solitudine esistenziale dei protagonisti. E anche quando, soprattutto con Due giorni, una notte, avevano scoperto il fascino narrativo latente nei volti degli attori, il loro cinema sembrava aver mantenuto quell’intensità espressiva, che aveva fatto evocare per loro i modelli di Rossellini o di Bresson.
Anche in La ragazza senza nome si avverte che questi restano i principali punti di riferimento dei Dardenne, ma qui qualcosa sembra aver impedito al film di concretizzare le proprie dichiarate ambizioni. Ma che cosa? Oltre ai già citati limiti della sceneggiatura, e senza bisogno di chiamare in causa la poco duttile interpretazione della protagonista, azzarderei che quello che proprio non ha funzionato è il programmatico rifiuto del film di addentrarsi nei sentieri della finzione pur emotivamente evocata dal primo piano terrorizzato della ragazza fissato dall’occhio delle telecamere di sicurezza.
Preoccupata soprattutto di conoscere il nome della sconosciuta per poterle dare onorata sepoltura, la dottoressa Adèle Haenel sembra di fatto non interrogarsi sul perché di quel suo terrore, e lo stesso fanno anche i Dardenne che, accontentandosi del confuso racconto del padre del reticente ragazzo in cura dalla dottoressa, ne ignorano di fatto le più intime ragioni umane, lasciando allo spettatore la spiacevole sensazione che a loro interessi molto più sviluppare il problema etico posto a tavolino (sintetizzabile nel dovere di ciascuno di far bene il proprio lavoro, sempre) che indagare sulle persone che si trovano a viverlo in relazione agli altri.
In altri termini, ciò che sembra mancare a La ragazza senza nome sono l’autonomia estetica e la forza drammaturgica dello sguardo cinematografico. E per questo si potrebbe concludere che a sottofondo del disagio provocato dalla visione del film stia il problema antico (già Aristotele lo aveva lucidamente posto!) del rapporto tra realtà e rappresentazione, il quale costringe ancora una volta lo spettatore a constatare che nell’espressione artistica (e i Dardenne non lasciano mai spazio al dubbio che il cinema sia Arte!) il “verosimile” (cioè, la coerente costruzione narrativa delle situazioni e dei personaggi) ha necessariamente il sopravvento sul “vero” (cioè, la semplice descrizione dei fatti) e che, comunque, una “cosa verosimile, ma non vera” ha sempre più forza artistica di una “cosa vera, ma non verosimile”. Se non altro perché, solo così si evita che l’Arte naufraghi – come troppo sovente accade a questo ultimo film dei Dardenne – nella palude della noia o di una pur nobile problematica disancorata però dalla concretezza della vita umana.
LA RAGAZZA SENZA NOME
(La fille inconnue, Belgio 2016) Regia, soggetto e sceneggiatura: Jean-Pierre e Luc Dardenne – Fotografia: Alain Marcoen – Scenografia: Igor Gabriel – Montaggio: Marie Hélène Dozo – Interpreti: Adèle Haenel (Jenny Davin), Olivier Bonnaud (Julien), Louka Minnella (Bryan), Jérémie Renier (Vincent, padre di Bryan), Christelle Cornil (madre di Bryan) – Olivier Gourmet (Lambert figlio), Pierre Sumkay (Lambert padre), Nadège Ouedraogo (cassiera del cybercafè). Distribuzione: BIM – Durata: un’ora e 53 minuti