di Renato Venturelli.
Sessant’anni, sceneggiatore e regista, Gary Ross ha diretto finora solo quattro film nella sua carriera, ma con una personalità che ci rimanda a quella dei directors dell’epoca classica, capaci di passare da un genere all’altro, mantenendo alcuni elementi costanti all’interno di prodotti deliberatamente industriali. Aveva esordito quasi vent’anni fa con “Pleasantville” (1998), in cui uno schema vagamente alla “Truman Show” introduceva a una riflessione sull’America anni ’50, le sue chiusure ottuse e il suo puritanesimo. In seguito ha realizzato “Sea Biscuit” e il primo episodio della serie “Hunger Games”, due film che dietro le convenzioni dei rispettivi generi mantengono uno sguardo criticamente attento al contesto sociale. E adesso è al 34° TFF con questo “The Free State of Jones”, un po’ post-western, un po’ dramma razziale, un po’ esempio del genere “Americana”.
Al centro, la figura di Newt Knight (1837-1922), un infermiere dei Confederati che durante la guerra civile prende coscienza delle ingiustizie sociali del Sud, diserta e torna a casa per seppellire il nipote adolescente, morto ammazzato appena giunto al fronte. Una volta sul posto, vedrà in prima persona le sopraffazioni dei Confederati nei confronti della povera gente, i sequestri e le requisizioni, le tasse inique che mettono intere famiglie alla fame, mentre i ricchi proprietari terrieri restano intoccabili e possono addirittura evitare la guerra a seconda della quantità di schiavi di cui dispongono.
La sua ribellione lo porterà a rifugiarsi nelle paludi insieme a disertori, condadini ridotti in miseria, donne, bambini e schiavi in fuga, che lui difende anche nei confronti degli altri compagni sostenendo l’assoluta parità di diritti da parte di qualsiasi essere umano. Insieme a loro si ribellerà in armi, proclamando uno stato “libero” nella contea di Jones, Mississippi, ma senza ottenere alcun aiuto dai nordisti, che abbandonano gli insorti al loro destino: e dopo la fine della guerra, scoprirà che dal punto di vista sociale è cambiato ben poco, perché i vecchi proprietari terrieri continuano ad avere ogni potere, lo schiavismo prosegue sotto nuove formule (i “contratti di addestramento” sinistramente attuali…) e lo stesso diritto di voto rimane per lo più impraticabile.
Qualcuno ha osservato come questo ritratto del sud ci racconti anche qualcosa sull’America profonda di oggi, il suo rapporto con le armi, l’individualismo libertario, le radici del partito repubblicano. Il risultato è un film dall’impatto narrativo vigoroso anche se convenzionale, interpretato da un Matthew McConaughey sempre eccellente, naturalmente condizionato dall’adesione empatica del regista alle vicende narrate e soprattutto da qualche problema di coesione drammaturgica: nel susseguirsi degli avvenimenti e nell’aggancio all’America del ‘900 attraverso il processo a un erede di Newt Knight, “Free State of Jones” finisce a tratti per sembrare quasi una miniserie tv compressa in 140 minuti.