di Aldo Viganò.
Tre “tuffi” cadenzano lo svolgimento narrativo dell’ultimo film di Bellocchio. Il primo, anzi i primi sono quelli di Cagnotto e Di Biasi (credo alle Olimpiadi del 1970) che il bambino protagonista vede alla televisione e imita sul divano di casa, in un gioco infantile di cui ignora l’ironica forza imitatrice di un gesto materno che, pur tenutogli nascosto per molti anni, condizionerà tutta la sua esistenza. Il secondo è quello che, in una sequenza ricca di citazioni da Il bacio della pantera di Jacques Tourneur, la bella dottoressa Elisa fa dal trampolino di 10 metri (quello prediletto da Di Biasi), sotto lo sguardo insieme ammirato e spaventato del protagonista che è ormai diventato un celebre giornalista. E poi c’è il terzo, quello che non si vede mai, ma che incombe su tutto il film come un incubo da decifrare: intendo il “tuffo” definitivo che la madre di Massimo, prigioniera della propria depressione, compie dalla finestra del quinto piano dell’appartamento torinese in cui abita con il marito e l’adorato figlioletto.
Se il romanzo di Massimo Gramellini era costruito soprattutto sull’attesa della rivelazione di che cosa accadde veramente quella notte in cui il padre uscì barcollante dalla propria stanza e il figlio vide radicalmente cambiata la propria esistenza, anche a causa del silenzio sull’argomento costruito intorno a lui da parenti e conoscenti; il film di Marco Bellocchio tende a emarginare sul grande schermo quel privato dolore di un bambino posto troppo presto davanti alla morte, per favorire invece – come s’addice a tutto il suo cinema migliore – lo sguardo universalizzante della cinepresa sugli esseri umani e sulle loro relazioni reciproche.
È soprattutto sul piano squisitamente cinematografico che la parte più riuscita di Fai bei sogni è quella che racconta l’infanzia e l’adolescenza di Massimo. Bellocchio non vi assume necessariamente il punto di vista di nessuno dei suoi personaggi, ma li lascia vivere in modo autonomo. Con o senza precisi punti di riferimento realistici, come accade al giovane Massimo la cui strana madre alternava momenti di gioia e attoniti silenzi, diventando così per lui un personaggio fantasmatico e misterioso, come quel Belfagor, protagonista di un celebre serial televisivo francese (trasmesso dalla Rai nel 1965), nel quale il bambino proiettava le ombre, i fremiti e le paure della propria immaginazione.
Regista che tende sempre più a far vivere i propri contenuti entro la specificità del linguaggio delle immagini in movimento, Bellocchio porta qui agli estremi la sua tendenza a raccontare il mondo per sequenze e gli esseri umani per inquadrature, nelle quali sa sempre immettere un personale ritmo (e/o sguardo) capace di mescolare insieme partecipazione emotiva e feroce distacco razionale. Come accade, ad esempio, nella sequenza di Sarajevo in cui il fotoreporter (interpretato dal figlio di Bellocchio) al seguito di Gramellini falsifica (e insieme le dà un senso) la realtà componendo l’inquadratura di un bambino che gioca con la playstation accanto al cadavere della madre.
Sono sequenze come questa citata, che rinvia direttamente a quella del bambino quando imita De Biasi, mentre la madre sta facendo il suo tuffo fatale, che rivelano come, nonostante l’argomento a lui fondamentalmente estraneo, Fai bei sogni sia proprio un film di Bellocchio. Così come lo confermano quei giochi familiari sempre tanto carichi di attese vagamente orrorifiche o lo testimoniano le molte sequenze a se stanti quali sono quella che costruisce il dialogo col prete sul tema della morte della madre, o quella con il professor Herlitza riguardo all’esistenza di Dio, ma anche quella della telefonata notturna che il giornalista Valerio Mastrandea ha con la sconosciuta dottoressa Bérénice Bejo nel corso di un attacco di panico; o il potente monologo di Giulio Brogi nel corso della riunione di redazione di “La stampa”.
Ecco, infine. L’ultimo film di Bellocchio è proprio questo: un’opera discontinua e un po’ slegata (il racconto dell’infanzia del protagonista è certo migliore di quello delle imprese dell’uomo di successo), costruita per sequenze che vivono indipendentemente (soprattutto sul piano stilistico) dalla storia evocata dal romanzo; ma con all’interno delle sue immagini una forza sempre più rara nel cinema (non solo in quello italiano), capace di dare a Fai bei sogni l’impronta non facilmente dimenticabile di un’opera personale che invita lo spettatore ad avere il coraggio di compiere anche lui il gioioso tuffo in un film, il cui linguaggio sa mescolare in modo “impudico” la tragedia e la commedia, l’amore e la morte, l’angoscia esistenziale e la gioia di esistere, la vita e le sue contraddizioni. Facendo sempre (o quasi) del vero cinema.
FAI BEI SOGNI
(Italia – Francia, 2016) regia: Marco Bellocchio; soggetto: dal romanzo omonimo di Massimo Gramellini; sceneggiatura: Marco Bellocchio, Valia Santella, Edoardo Albinati; fotografia: Daniele Ciprì; musica: Carlo Crivelli; scenografia: Marco Dentici e Lily Pungitore; montaggio: Francesca Calvelli. Interpreti: Valerio Mastrandrea (Massimo), Bérénice Bejo (Elisa), Barbara Ronchi (madre di Massimo), Guido Caprino (padre di Massimo), Fabrizio Gifuni (Paolo), Roberto Herlitzka (Ettore), Miriam Leone (Agnese). Distribuzione: 01 Distribution; durata: due ore e 14 minuti