di Alberto Castellano.
Il Warsaw International Film Festival è uno di quei festival europei dei quali i media italiani non si occupano affatto. Non pensiamo naturalmente – vista la priorità che la carta stampata e la televisione “devono” dare solo ai due, tre festival mondiali più conosciuti pieni di passerelle di star e di gossip (ma anche delle anteprime americane più ambite) – a una copertura di critica e di cronaca ma almeno a un minimo d’informazione per il dovere se non altro di far sapere ai numerosi lettori nazionali che esistono delle realtà culturali che per quantità di film in programma, per qualità di opere che per la maggior parte non vengono distribuite (ma neanche viste), per presenze di appassionati di tutte le età, neanche ci sogniamo (fatta qualche eccezione come il Festival di Torino).
Certo bisogna avere la fortuna (o il privilegio) di andarci almeno una volta per toccare con mano cosa significa avere una strategia festivaliera che riesce a bilanciare lo spettacolo, un’offerta di film a 360° che costituisce un attendibile termometro dell’attuale (co)produzione europea e di alcune zone del mondo, uno specchio del rapporto tra forma e contenuto del cinema contemporaneo, un po’ di glamour, un’organizzazione e un’ospitalità invidiabili.
La 32esima edizione del Festival polacco (dal 7 al 16 ottobre), ad esempio, ha confermato il prestigio, la varietà di proposte, l’interesse da parte del pubblico e della stampa internazionale di un Festival che dopo il colosso di Karlovy Vary, è la più importante rassegna dell’Europa orientale. Del resto le cifre sono abbastanza eloquenti: circa 180 film distribuiti in 13 sezioni tra concorsi, fuori concorso, anteprime, documentari, corti e retrospettive; 100000 biglietti, 80000 presenze di pubblico pagante, 1375 accreditati tra media, professionali e industry.
Le varie giurie hanno premiato l’iraniano Malaria (miglior film), l’islandese Heartsone (miglior regista), il giordano Blessed Benefit (Premio speciale), il francese Toril, il discusso polacco Playground, il croato Quit Staring At My Plate, mentre la Fipresci ha premiato il bulgaro Godless. E poi tanti altri premi a documentari e corti distribuiti tra Polonia, India, Svezia, Russia, Canada, Inghilterra, Stati Uniti, Svizzera, Olanda. In linea con la tradizione cosmopolita e multietnica del Festival nel quale sono presenti davvero quasi tutti i paesi del mondo grazie anche alle tante coproduzioni che fanno incontrare e cooperare le cinematografie geograficamente più lontane e più diverse (l’Italia era presente con un solo film, La pazza gioia di Virzì, fuori concorso).
Il Festival ha dato anche l’opportunità di verificare lo stato di salute del cinema polacco contemporaneo che naturalmente aveva una presenza massiccia (una quarantina di opere tra lungometraggi, cortometraggi, fiction e documentari). Dalla produzione polacca ma anche da quella di altri paesi dell’Est emergono alcune interessanti tendenze. Sono in vistoso aumento le donne registe di varie età che fanno valere la loro sensibilità particolare, il loro sguardo spesso più profondo di quello maschile, la loro esigenza di raccontare storie di altre donne che vivono condizioni di disagi sociali, psicologici o familiari.
C’è poi un’attenzione particolare per il disagio che vivono oggi molti adolescenti o giovani fuori e dentro la famiglia, una sensibilità per una generazione che non ha futuro. Molte opere inoltre danno interessanti indicazioni circa lo stile visivo e le soluzioni narrative adottate dai vari cineasti di diverse generazioni. Si passa dallo stile realistico duro e secco a quello che per raccontare la coralità del plot strizza l’occhio alla commedia americana, dalla forma lineare e anche didascalica a quella più ellittica e sofisticata, dal modo di narrare essenziale al servizio della storia e del personaggio a quello che ha come modello il cinema degli anni ’60 con macchina a mano che segue sempre il protagonista, a quello più astratto fatto di sospensioni e allusioni.