di Renato Venturelli. Paul Verhoeven era praticamente sparito dai tempi di “Black Book”, film straordinario ma controverso come quasi tutta la sua opera. Dopo dieci anni, inframmezzati solo dall’episodio anomalo di “Tricked / Steekspel”, è tornato adesso a Cannes con un film che di colpo ha conquistato tutti, è stato accolto da un insolito consenso generale, ma ancora una volta deve aver toccato qualche corda scorretta, visto che è rimasto escluso dal palmarès.
Tratto dal romanzo “Oh…” di Philippe Djian, “Elle” parte subito con una scena forte: Isabelle Huppert a terra, con le cosce insanguinate, vittima della violenza di un uomo mascherato che ha fatto irruzione in casa sua. Ma la scena è introdotta dallo sguardo distaccato di un gatto: e la reazione della protagonista sarà altrettanto enigmatica. Anziché denunciare l’aggressione, riprende freddamente la sua vita quotidiana di donna d’affari e cerca di scoprire chi sia il suo violentatore senza essere apparentemente animata né da un convenzionale desiderio di vendetta, né da una forma di più o meno inconscia complicità.
Verhoeven dice di aver pensato inizialmente di realizzare il film negli Stati Uniti, ma di avervi poi rinunciato perché il soggetto sembrava agli americani troppo rischioso, immorale, interpretabile come anti-femminista (“il casting stesso, a livello americano, era quasi impossibile…”). “Elle” presenta in fondo l’ennesimo personaggio femminile dell’opera di Verhoeven dalle caratteristiche se non “amorali”, quantomeno problematico, non appiattito sui modelli del politicamente corretto: e sappiamo come questa disinvoltura abbia scandalizzato, fino al recente “Black Book”, o al caso di un film come “Showgirls” rimasto a lungo incompreso e bistrattato (c’è voluto Rivette per farlo accettare ai cinefili perbene).
Ma la reazione glaciale della protagonista non è soltanto una questione di psicologia del personaggio: è tutto il film che imbocca così un indirizzo narrativo inafferrabile, ambiguo, di complicata interpretazione, costruito attraverso una serie fittissima di rimandi visivi, di raffinati collegamenti che non intendono mai stabilire un senso univoco alla vicenda. In questo modo, Verhoeven s’insinua ancora una volta con personalissima malignità all’interno sia della società e delle sue ipocrisie, sia degli individui e delle loro contraddizioni: e dimostra a 78 anni di essere ancora nel pieno della sua attività, anche se Hollywood l’ha colpevolmente scaricato dopo “Starship Troopers” e “L’uomo senza ombra”.
(renato venturelli)