di Massimo Lechi.
Quando, nei primi anni Settanta, gli venne proposto di realizzare un film sull’Olocausto, Claude Lanzmann era un giornalista cinquantenne noto a Parigi per i reportage e le prese di posizione politiche su Les Temps Modernes, un intellettuale della carta stampata convertitosi al documentario dopo una vita – a dir poco turbolenta – a stretto contatto con Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir.
Più di tre decenni dopo Shoah (1985), quell’impresa umana e cinematografica apparsa sin dall’inizio immane e pericolosa, il regista francese è un novantenne energico, ruvido e lucidissimo, ancora capace di polemiche roventi (su Israele, in particolare), e che, proprio come i sopravvissuti da lui scovati e immortalati nel tempo, pare ormai soprattutto incarnare la testimonianza di una vita straordinaria. Ed è esattamente nella veste di testimone vigile, consapevole del nostro passato collettivo e del suo destino individuale, che gli spettatori del diciottesimo Thessaloniki Documentary Festival – Images of the 21st Century hanno potuto incontrarlo in Claude Lanzmann: Spectres of the Shoah.
Già candidato all’Oscar, il film di Adam Benzine – documentarista britannico dal 2011 attivo in Canada – si è rivelato tra i maggiori successi della selezione, ricevendo grandi applausi alla prima nella sala Olympion e uno dei Premi del Pubblico durante la cerimonia di chiusura. L’accoglienza calorosa non stupisce di certo. Spectres of the Shoah è infatti un cortometraggio documentario dal ritmo incalzante, abilmente costruito sull’alternanza di primi e primissimi piani di Lanzmann, immagini d’archivio (vecchie interviste, backstage, fotografie in bianco e nero) e, naturalmente, intense sequenze di Shoah. Rapidità di montaggio, essenzialità narrativa, pulizia d’esecuzione: quaranta minuti compatti che fanno tenere gli occhi incollati sullo schermo. Benzine è principalmente interessato a creare un racconto dalla traiettoria chiara che ripercorra, dalla prospettiva esclusiva dell’autore, le tappe essenziali della lavorazione del celebre documentario – il cui valore assoluto viene ribadito e fissato senza inutili giri di parole dai telegrafici interventi iniziali di Richard Brody e Marcel Ophuls. Dal film all’uomo e dall’uomo al film, dunque, senza soluzione di continuità. Cinema come viaggio nella storia e nel personaggio, durante il quale ogni preconcetto può disintegrarsi.
I dodici anni che portarono alle mastodontiche 10 ore finali di Shoah (sulle centinaia di girato effettivo) vengono così ripercorsi lungo il filo rosso che legava il progetto, ovvero la ricerca di un’impossibile chiave di rappresentazione di ciò che non può essere rappresentato, e la responsabilità che ne consegue. Per girare il grande film sulla Morte, Lanzmann sviluppò un rischiosissimo metodo di avvicinamento ai testimoni e, in quanto ebreo ed ex combattente della Resistenza, aderì totalmente al materiale di volta in volta trovato, ricostruito e persino rubato, ai racconti dei sopravvissuti e degli aguzzini, fino a sprofondare nella depressione e giocarsi l’osso del collo. Tanto che, dopo aver mostrato come Lanzmann convinse il barbiere Abraham Bomba a rievocare l’inferno di Treblinka (uno dei passaggi più dolorosi di Shoah), Benzine spinge lo stesso regista a raccontare in camera per la prima volta la violenta aggressione subita dopo l’incontro con un nazista impunito, facendo leva sulle medesime motivazioni e i medesimi convincimenti: il dovere che il singolo ha di raccontare la propria storia, nonostante la sofferenza intollerabile che l’atto di testimonianza può comportare.
E’ questa l’unica forzatura didascalica, probabilmente inevitabile, di un breve ma compiuto ritratto cinematografico che, pur vivendo all’ombra di un’opera infinitamente più ricca e ingombrante, riesce a restituire in larga parte la grandezza e il fascino di un uomo di cultura il cui contributo alla storia del documentario continua oggi ad apparire incalcolabile.
Massimo Lechi