di Juri Saitta.
Il cileno Pablo Larraín è un regista allo stesso tempo poliedrico e riconoscibile. Poliedrico perché nel corso della sua filmografia ha realizzato opere tra loro diverse sul piano formale, passando dal barocchismo di Fuga all’estremo rigore di Post Mortem, dalla regia volutamente “sporca” di Tony Manero alla controllatissima serie tv action Profugos, fino al racconto scorrevole e all’ “americana” di No – I giorni dell’arcobaleno. Ma contemporaneamente, il suo è un cinema assai riconoscibile, soprattutto per la dialettica tra memoria e oblio, tematica presente in tutti i suoi lavori.
In tale prospettiva, con la sua ultima fatica Il club Larraín sembra continuare ad affrontare tematiche a lui care e arrivare a un punto di sintesi del suo stile cinematografico.
Ambientato a La Boca, un paese sulla costa del Cile, il film vede al centro una “comunità” composta da quattro preti sorvegliati da una suora. Questi hanno commesso dei crimini che la Chiesa non vuole rendere pubblici né far giudicare dallo Stato, motivi per i quali “punisce” i peccatori isolandoli in una casa tranquilla e appartata. Tutto ciò almeno fino a quando – in seguito al suicidio di un nuovo arrivato – viene inviato un padre gesuita intento a chiudere il “club”.
Nonostante che con quest’opera il regista cileno non affronti (quasi) più la dittatura di Pinochet (perno centrale di Tony Manero, Post Mortem e No) per concentrarsi sulle contraddizioni della Chiesa Cattolica, anche qui è presente la problematica dell’oblio, questa volta non incentrata sulla Storia, ma piuttosto sull’opinione pubblica e sulla colpa individuale. Infatti, da un lato vi è la volontà delle istituzioni ecclesiastiche di nascondere i reati commessi dai propri membri, mentre dall’altro ci sono degli individui che mentono a se stessi autoassolvendosi e ignorando così la gravità delle proprie azioni.
E se in questo senso l’opera sviluppa e continua su altre direzioni uno dei temi più cari all’autore, dall’altro unisce alcuni aspetti linguistici presenti in modo “sparso” nei lavori precedenti, facendone così una sorta di sintesi.
Un aspetto riscontrabile nella regia, nel montaggio e nel ritmo narrativo. Se quest’ultimo sembra porsi tra la lentezza di Post Mortem e l’agilità di No perché meditativo e scorrevole al tempo stesso, la regia risulta assolutamente rigorosa, in quanto – proprio come nel film sul colpo di Stato – privilegia i piani fissi ai movimenti di macchina, utilizzando questi ultimi in maniera sempre lieve e mirata.
Quasi in contrapposizione alla fluidità narrativa e alla precisione della regia, vi è un montaggio che – come in Tony Manero e in No – tende invece a frammentare lo spazio tramite l’uso di falsi raccordi, soprattutto nelle parti dialogate, spezzate da piccole ellissi che spostano improvvisamente la conversazione da un luogo all’altro. Una scelta formale mirata a disorientare lo spettatore, come il regista cileno ha fatto in forme più o meno diverse nelle opere precedenti.
Ed è proprio per la convivenza e lo sviluppo di tali elementi che Il club può essere considerato come una sintesi della filmografia di Larraín: un’opera che unisce il rigore della regia con la frammentazione del montaggio, la lentezza del ritmo con la scorrevolezza complessiva.
Scelte linguistiche spesso presenti nel cinema dell’autore latinoamericano, ma riscontrabili come a sé stanti in singoli film, e dunque mai completamente unite tra loro in un’unica opera. Il club sembra invece includere (quasi) tutte le diverse varie opzioni formali, risultando così la summa di una poetica sempre più matura e riconoscibile.
(di Juri Saitta)