Mentre è nelle sale il suo ultimo film, “Il club”, esce in libreria la prima monografia su Pablo Larrain, il regista cileno di gran lunga più noto sul piano internazionale nella generazione del cosiddetto “nuovissimo cinema cileno” impostosi negli anni Duemila.
L’ha scritta Jurij Saitta (“Il cinema di Pablo Larrain”, Il Foglio, Piombino 2015, 141 pp., 12 euro), e passa il rassegna l’opera di Larrain, i suoi temi e le sue scelte stilistiche, a partire da una panoramica sul contesto cileno degli ultimi anni, caratterizzato dalle opere dei vari Sebastian Lelio, Matias Bize, Fernando Levanderos o Andres Wood che solo in alcuni casi hanno avuto un’uscita italiana (tra i rari esempi, “Machuca” e “Gloria”).
“Quello di Larrain è forse un cinema più esportabile e più riconoscibile come cileno rispetto a quello dei suoi coetanei conterranei” scrive Saitta per spiegare l’abisso di notorietà internazionale tra Larrain e gli altri, affrontando poi l’evoluzione della sua opera. La parte centrale è ovviamente occupata dall’analisi della trilogia sul Cile di Pinochet, in cui Larrain riflette sulla storia, sulla memoria e sull’oblio, sulle motivazioni profonde per cui il popolo cileno ha accettato gli orrori della dittatura e sui rapporti con la cultura e l’economia neoliberista statunitense che l’hanno caratterizzata.
Ma ovviamente i film di Larrain s’impongono innanzitutto per il modo in cui hanno raccontato quel periodo, con una continuità di ricerca linguistica che passa attraverso le differenze di stile fra “Tony Manero”, “Post mortem” e “No – i giorni dell’arcobaleno”.
Oltre a questi film, il volume analizza anche le altre opere di Larrain, permettendo di ampliare l’orizzonte sulla sua produzione: il lungometraggio d’esordio “Fuga” (2005), inedito in Italia, alcuni spot pubblicitari, oppure la serie tv “Profugos” realizzata in collaborazione con un partner ricco e potente come la HBO, nella sua sezione “Latin American Originals”. Quest’ultima serie affronta u n tipo di racconto criminale che appartiene alla tradizione del genere, ma dove tra i membri del gruppo figurano sia un ex-oppositore della dittatura sia un ex-seviziatore agli ordini del regime, permettendo così a Larrain di riflettere anche in questo caso sul rapporto tra quegli anni e il Cile odierno.
Completa il libro un’ampia rassegna critica su “Il club”, che all’epoca della pubblicazione non era ancora uscito in Italia. Ma, dal punto di vista della ricezione dei film di Larrain, spicca anche la citazione delle prime accoglienze tributate in Italia a “No – i giorni dell’arcobaleno”: quando la rievocazione della vittoria su Pinochet al referendum del 1988 grazie a spot e jingles in pieno stile commercial-pubblicitario venne accolta da molte testate italiane come elogio della capacità di “liberarsi di ogni gabbia ideologica”… L’analisi amara e tagliente sul Cile post-Pinochet compiuta con grande intelligenza da Larrain finiva così per essere interpretata in modo diametralmente opposto, rovesciandone il senso: un po’ per l’incapacità critica di guardare dentro ai film e al loro linguaggio, e un po’ per il vecchio vizio italiano di approfittare delle opere per sovrapporvi le proprie personali urgenze ideologiche.