di Aldo Viganò.
Chiedo scusa al lettore se per una volta uso l’impropria prima persona, ma essendo convinto che sicuramente qualcuno sarà stato più perspicace di me, evito di usare quelle canoniche forme impersonali che potrebbero in qualche modo coinvolgerlo.
La prima impressione che ho avuto uscendo dal cinema in cui ho visto l’ultimo film dei fratelli Coen è che in fin dei conti si erano divertiti soprattutto loro a rivisitare con la cinepresa il cinema hollywoodiano della loro infanzia attraverso i suoi generi più popolari: il peplum cristologico, il western canterino, il melodramma da salotto, il musical con i marinai e quello acquatico con le sirene che costruiscono in piscina immagini caleidoscopiche. Un cinema colorato e ingenuo, che appartiene al tempo in cui i film assomigliavano ancora alla vita. Solo un “divertissement”, quindi, che riguardava più loro di me, che pur ero stato al gioco con un sorriso di condiscendenza.
Ma poi, ripensandoci, mi è iniziato a sorgere il dubbio che forse sullo schermo era passato qualcosa che non avevo capito bene; non solo una strana storia composta di storie incrociate, avente in comune uno stile leggero, a tratti anche un poco goliardiche. C’era soprattutto quel tono affettuoso e rilassato, ad inquietarmi in un film, Ave, Cesare!, fatto di storie autonome l’una dall’altra, era però tenuto insieme da due strane sequenze, la prima e l’ultima, che si svolgono nel confessionale di una chiesa cattolica e che hanno come protagonista un dimesso direttore di Studio hollywoodiano che si confessa tutti i giorni e si sente in colpa solo per non aver detto alla moglie di aver fumato di nascosto due (forse tre) sigarette, e che continua a rimandare la risposta a chi gli offre un mucchio di soldi per fare il dirigente della rinascente industria aerospaziale Lockheed.
Perché? Forse egli preferisce davvero, invece di diventare ricco, continuare nell’anonimo ruolo di chi tiene le attrici lontane dagli scandali, impedisce ai registi di protestare i loro interpreti, fa riunioni con i rappresentanti delle diverse confessioni religiose per garantirsi che nessuno di loro avrà da dire per la figura di Cristo, così come appare in un colossal in costume. Ma perché, chi glielo fa fare, se non sembra neppure divertirsi?
E poi, perché, proprio dai fratelli Coen, un film così congeniato come se fosse composto di frammenti della memoria? Perché quell’alternarsi d’immagini che rinviano alla fabbrica dei sogni, ma che non hanno evidentemente più il profumo delle favole? E cosa c’entra la parodia di quegli sceneggiatori comunisti, visti anch’essi con sorridente simpatia, che vorrebbero sottrarre Hollywood alle ferree leggi del capitalismo? Perché quel gioco delle citazioni di un cinema certo amato è continuamente negato e messo in discussione da immagini poco belle in sé e dal volto pensoso di un personaggio grigio e anonimo come quel protagonista così ridicolmente cattolico, e per di più raccontato da due registi esplicitamente di origine ebraica?
Perché? Perché? Che rapporto ha questo film con i precedenti film dei Coen, che pur avevo apprezzato sia quando firmavano film futili quali Arizona Junior o Fratello dove sei?, sia quando portavano sul grande schermo il segno squisitamente autoriale di Crocevia della morte, Fargo o Non è un paese per vecchi?
Tante domande, forse troppe. Prima di scriverne, mi è sembrato allora conveniente che, come mi accade soprattutto per i film più belli (o da me ritenuti tali), facessi atto di umiltà dicendomi “forse sono io che non ho capito” e tornassi pertanto a rivedere il film, tanto più che un cinema cittadino mi offriva l’occasione di farlo in una edizione in lingua originale sottotitolata; dato che proprio il doppiaggio mi sembrava essere uno degli elementi che me ne avevo reso difficile la comprensione.
Detto e fatto! Ebbene, credo di poter ora scrivere che, se è pur vero che Ave, Cesare! ancora non mi sembra essere uno dei migliori film dei Coen, ciò non deriva però dalla supposta superficialità del loro sguardo, ma soprattutto dal fatto che vogliono dire troppo: cioè, non solo raccontare una storia, ma anche metterne in scena l’ideologia “antideologica” che la sottende.
Ave, Cesare! è, spero che su questo siano tutti d’accordo, un atto d’amore per il cinema. Ma, mentre per molti spettatori questa affermazione è tutta racchiusa nel sentimento del ricordo, sino al punto di fare del film solo una sorridente antologia del proprio passato, i Coen vanno molto oltre: il loro amore per il cinema non si esaurisce nel piacere della memoria di ciò che è stato, perché il cinema per loro è stato e continua a essere una cosa molto più seria.
Il cinema hollywoodiano degli anni Cinquanta (ma anche quello precedente e seguente, perché le citazioni in Ave, Cesare! spaziano da Busby Berkeley a George Cukor o Vincente Minnelli) è per i Coen la realtà entro la quale si è esercitato e dichiarato l’amore per gli esseri umani. Per tutti. Uomini e donne, colti e ignoranti, stupidi come il personaggio interpretato da George Clooney o intelligenti come i comunisti che lo rapiscono: gli esseri umani (e gli attori che li interpretano) sono sempre affascinanti e la cinepresa dei Coen lo dice ad ogni istante, guardando i loro volti e ascoltando ciò che dicono con sorridente ammirazione.
Come accade nell’arte, quella vera e che conta davvero, in Ave, Cesare! tutti i personaggi sono messi in scena con amore, anche se poi con nessuno è possibile identificarsi, perché ciascuno è diverso dall’altro e ciascuno contiene in sé il proprio opposto. Lo “stupido” Clooney parla però un magnifico inglese e va con sincerità a scuola di Marcuse; l’ottuso cowboy interpretato da Alden Ehrenreich ha una pronuncia impossibile, ma è l’unico che sa risolvere i problemi con l’azione; Ralph Fiennes si esprime in un inglese tanto perfetto da risultare di fatto incomprensibile; e così via.
Il fatto è che per tutti loro – comprese le perfide gemelle Thacker (Tilda Swinton) e la ridicolmente sensuale diva acquatica (Scarlett Johansson) – i fratelli Coen hanno uno sguardo amorevole, che ci coinvolge. Soprattutto perché, così facendo, finiscono col rendere comprensibile, dandogli ragione, anche l’enigmatico Josh Brolin, il quale, dopo aver attraversato tutto il film con il volto imbronciato e con una domanda negli occhi, scopre infine che è molto più facile vivere nell’industria aerospaziale che nel cinema. Ma scopre anche che è proprio la facilità che non gli interessa. Per lui (e insieme a lui anche per noi spettatori), trovandosi a dover scegliere tra ciò che è facile e ciò che è meno facile, non ci sono infine più dubbi: il secondo corno del dilemma, vale a dire il cinema, è sicuramente da preferire perché lì ci sono gli esseri umani, con i loro capricci e le loro stupidità, è vero, ma comunque con la loro natura di esseri viventi. Questo è il cinema, ragazzi!
Questa mi sembra essere la constatazione che tiene insieme e dà un senso compiuto a tutto il film dei Coen. Questo è il cinema solo per il quale, parola di Coen, vale la pena di vivere e di morire. Proprio come accade, al tavolo di montaggio, a Frances McDormand, moglie di Joel nella vita, la cui sciarpa si confonde con la pellicola, rischiando di strozzarla al modo di Isadora Duncan, senza però farle mai abbandonare l’immancabile ultima sigaretta
AVE, CESARE!
(Hail, Caesar!, U.S.A.- GB. 2016)
Regia, soggetto, sceneggiatura e montaggio: Joel e Ethan Coen – Fotografia: Roger Deakins – Musica: Carter Burwell – Scenografia: Jess Gonchor.
Interpreti: Josh Brolin (Eddie Mannix), George Clooney (Baird Whitlock), Alden Ehrenreich (Hobie Doyle), Ralph Fiennes (Laurence Lorenz), Jonah Hill (Joseph Silverman), Scarlett Johansson (DeeAnna Moran), Frances McDormand (C.C. Calhoun), Tilda Swinton (Thora e Thessaly Thacker), Channing Tatum (Burt Gurney), Christopher Lambert (Arne Slessum), John Bluthan (Herbert Marcuse).
Distribuzione: Universal Picture – Durata: un’ora e 46 minuti