di Aldo Viganò
Alla fine di Salvate il soldato Ryan, il capitano Miller (Tom Hanks) – prima di morire sul ponte dell’ultima battaglia – sussurra al soldato James Ryan (Matt Damon): “Meritatelo!” (tutto questo che abbiamo fatto per te); e nell’epilogo del film – tra le bianche croci dei militari americani morti in Normandia – un Damon vistosamente invecchiato dal trucco chiede alla moglie che lo ha accompagnato sulla tomba di Hanks: “Dimmi che ho condotto una buona vita! Dimmi che sono stato un brav’uomo!”.
L’avvocato James Donovan e il pittore-spia Rudolf Abel, protagonisti di Il ponte delle spie, sono uomini di questa tempra. Per loro, come per molti personaggi del migliore cinema di Steven Spielberg, la vita bisogna meritarsela. Con la coerenza, con l’esempio e l’opinione degli altri, con la tenacia delle proprie azioni. Ed è proprio tutto questo che, diventando il sottile filo che sottende lo stile sempre personale ed essenziale del regista statunitense, concorre a fare di Il ponte delle spie uno dei migliori film degli ultimi anni. Un film che non ha bisogno di esibire la propria modernità, perché quello che in esso conta è la limpida chiarezza narrativa. Un film dichiaratamente di “genere” (lo spionaggio al tempo della Guerra Fredda), che sa diventare narrazione del mondo, dei rapporti tra l’individuo e la Storia, tra gli esseri umani e lo sforzo di ognuno di essere comunque un “brav’uomo”. Un classico contemporaneo in cui ogni inquadratura diventa necessaria a determinare la complessità del racconto e nel quale tutti gli apporti artistici si fondono armoniosamente (e sorprendentemente!) nell’unità estetica dell’opera.
Ispirato a un episodio storico dei primi anni Sessanta (lo scambio di prigionieri sul ponte di Glienicke tra la spia americana Powers e la spia russa Abel), Il ponte delle spie è un film perfetto (in un’epoca imperfetta e caratterizzata troppo spesso, anche nell’arte, dal culto dell’imperfezione) proprio per la sua capacità di coniugare nel risultato finale tutte le sue componenti e i singoli contributi di altissima professionalità che lo contraddistinguono. Una grande opera cinematografica che rivela tutta la sua capacità innovativa, proprio perché non ha paura di essere considerata “all’antica”. Un capolavoro in cui il linguaggio si fa contenuto e il contenuto si determina attraverso situazioni, immagini e sequenze mai fine a se stesse. Un classico nel senso più autentico della parola, perché in esso quello che infine conta è l’armoniosa bellezza dell’unità estetica, in cui la regia (precisa e sempre necessaria), la sceneggiatura (con lo straordinario apporto dei fratelli Coen), la fotografia (mai estetizzante), l’interpretazione (con la rivelazione di Mark Rylance, al fianco di Tom Hanks e tutti gli altri), ma anche l’analisi storica e il ritmo dell’azione, concorrono tutti a comporre l’unità stilistica di un racconto che pone sempre l’uomo al centro di tutto. E, così facendo, concorre a dare vita a quegli esseri umani e li descrive nella loro affascinante complessità.
Come accade per tutti i capolavori dell’arte classica, è molto difficile spiegare nel dettaglio la bellezza di Il ponte delle spie. Farlo a parole significherebbe inesorabilmente perderne il più autentico sapore. Come vale per i film di John Ford o di Ernst Lubitsch, ad esempio, il modo più autentico di gustare il film di Spielberg è di lasciarsi invadere dal flusso audio-visivo che costituisce l’armonia del film, rendendosi come spettatori disponibili ad assaporarne con tutti i sensi la sua complessità. E solo così, dopo di averlo visto e rivisto con mente sgombra da pregiudizi, si può ritornare a riflettere su Il ponte delle spie, avvalorando con la memoria tutti i suoi specifici passaggi narrativi: dal fascino della prima sequenza che inizia con un autoritratto allo specchio e prosegue con un inseguimento hitchcockiano nel metrò, al kafkiano labirinto delle trattative con i sovietici o con i funzionari della DDR, o alla pericolosa partita a poker giocata ai margini dello scambio sul ponte. E così via. Sino infine a portare al livello della coscienza comunicativa la consapevolezza che il fascino più autentico dell’ultimo film di Spielberg sta nel suo saper condensare sullo schermo l’essenza stessa del cinema: arte delle immagini in movimento, ma anche della narrazione per inquadrature e sequenze in sé sempre significanti e necessarie, del sapiente impianto drammaturgico della narrazione e, ancora, della recitazione di ottimi e ben diretti attori, la cui interpretazione, fissata per sempre sulla pellicola o nella virtualità digitale, attinge infine all’eternità.
(di Aldo Viganò)
IL PONTE DELLE SPIE
(USA – Bridge of Spies, 2015)
Regia: Steven Spielberg – Sceneggiatura: Matt Charman, Joel e Ethan Coen – Fotografia: Janusz Kaminski – Musiche: Thomas Newman – Scenografia: Adam Stockhausen – Costumi: Kasia Walicka-Maimone – Montaggio: Michael Kahn.
Interpreti: Tom Hanks (James B. Donovan), Mark Rylance (Rudolf Abel), Amy Ryan (Mary McKenna Donovan), Alan Alda (Thomas Watters), Austin Stowell (Francis Gary Powers), Scott Shepherd (agente Hoffman), Sebastian Koch (Wolfgang Vogel).
Distribuzione: 20th Century Fox – Durata: 2 ore e 21 minuti