Torino Film Festival 2015 – “The Girl in the Photographs” di Nick Simon

the-girl-in-the-photographs-mediumRenato Venturelli.
L’hanno massacrato un po’ dappertutto, ritenendolo uno slasher irrimediabilmente inadeguato al nome di Wes Craven, produttore del film, al suo ultimo credit prima della morte. Ma questo “The Girl in the Photographs” è in fondo un pastiche di situazioni craveniane in cui il citazionismo è condotto in modo abbastanza asciutto, senza essere appesantito da un’ironia invadente, per certi versi perfino fin troppo serioso. Come nella citazione iniziale da Burroughs, dove si ricorda che c’è qualcosa di inquietante e osceno nella fotografia in sé, nel suo desiderio di imprigionare la vita – come appunto il maniaco del film imprigiona le sue vittime.

Dopo il tipico inizio di due spettatrici che escono da un cinema (“basta horror!”), in un contesto visivo iperrealista che è già quello della finzione e della mise-en-abyme dell’immagine, il film ruota poi attorno a due maniaci assassini, che sequestrano ragazze, le incatenano in piccole gabbie, poi le torturano, le uccidono e le fotografano in “artistici” laghi di sangue, recapitando quindi le immagini a una commessa di supermercato. La polizia dice di non poter intervenire perché si tratta di “foto d’arte” cui non è detto corrisponda qualche crimine reale, un fotografo alla moda di Los Angeles si precipita sul posto con la sua squadra, e il film culmina in un massacro finale alla Scream.

Ogni personaggio, ogni situazione rimanda a qualche film di Craven, senza però che il citazionismo si sovrapponga alla narrazione. E tutto ruota manieristicamente attorno alla riflessione sull’immagine, sul rapporto tra la vita e la sua riproduzione, sull’idea che fotografia e cinema siano in sé portatrici di morte e che lo splatter ne costituisca l’essenza stessa. Un aspetto “teorico” che da decenni fa parte delle stesse convenzioni dell’horror seriale, in un processo senza sbocco che è quello dell’horror nell’era della sua infinita riproducibilità tecnica. Fino a risolversi in un finale ovviamente sintetizzato da un’immagine, quella in cui la vita viene inghiottita dalla morte della sua riproduzione. Manca una regia adeguata e si resta nell’ambito del prodotto derivativo, ma è comunque un film che lo spettatore craveniano non può ignorare, quanto meno come pura variazione ludica: scritto tra l’altro da Osgood “Oz” Perkins, figlio di Anthony, presente al TFF anche come regista di “February”.
(renato venturelli)

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