di Massimo Lechi.
A chi abbia scarsa dimestichezza con la cronaca sudamericana del secondo dopoguerra, il nome Arquímedes Puccio dirà poco o nulla. Eppure le gesta di questo oscuro funzionario governativo, esperto tanto in contabilità aziendale quanto in spionaggio e sequestri, hanno avuto nell’Argentina degli anni Ottanta un’eco straordinaria, segnando per sempre l’immaginario del paese.
Membro della Side (la temibile Secretaría de Inteligencia), Puccio si distinse come attivissimo servitore della Giunta militare durante la “guerra sucia”, sempre mantenendo però, tra mille ostacoli, una facciata di rispettabilità. Padre amorevole, marito devoto, cittadino esemplare, sbirro in incognito, capo di un’anonima sequestri al soldo della dittatura: troppi volti per un uomo solo. Con l’avvento al potere del democratico Raúl Alfonsín, decise di continuare a rapire per soldi affaristi e signore benestanti, coinvolgendo nelle nuove operazioni i propri figli maschi, e trasformando la casa di famiglia in una prigione segreta.
Pur preceduto da uno strepitoso successo al box office argentino, El Clan è arrivato in concorso alla settantaduesima Mostra del Cinema di Venezia senza eccessivo clamore. Sin dalla prima proiezione stampa, ha tuttavia conquistato molti sostenitori. Il film di Pablo Trapero possiede infatti ciò che serve per piacere: personaggi reali (il “tratto da una storia vera” è sempre marchio vincente), una trama angosciosa con svolte spesso sorprendenti, violenza e oscuri intrecci politici. Impossibile negare l’efficacia e il fascino dell’insieme.
Eppure elementi di forza e limiti di questo racconto di sangue argentino, curiosamente, coincidono. Il regista-sceneggiatore di Mondo Grua ha puntato tutto sul ritmo, sul dinamismo, nel tentativo di creare un gangster movie storico-politico di facile agibilità, unendo in tal modo esigenze di spettacolo e ricostruzione di quel groviglio di orrori, soprusi e omertà che furono gli anni della dittatura. Manca, caduto sotto la scure dell’intrattenimento e del tempo, quel senso di tragedia impunita che accomuna le pellicole che hanno affrontato l’argomento dopo il ritorno alla democrazia. Oggi non sembra rimanere altro che la crudele e in fondo beffarda presa d’atto dell’assoluta banalità degli aguzzini di allora.
Per questo motivo El Clan, fulminea parabola di un uomo del regime divenuto criminale comune e della sua famiglia complice e prigioniera, finisce col risultare un’opera a sé, figlia del proprio tempo più di quanto non appaia a prima vista, imparagonabile sia alla livida cinematografia del cileno Larraín sia al cinema civile di Luis Puenzo. Anche Marco Bechis, con le sue celle buie e i suoi volti bendati, con le famiglie lacerate e i voli della morte ripresi da agghiacciante e impotente distanza, viaggiava anni fa su altri binari. Qui non c’è troppo spazio per le sfumature, per le riflessioni sul male, per le contraddizioni atroci di un paese (di un continente) che ha visto morire i suoi peggiori macellai in comodi giacigli. Qui il torbido passato è chiaro, leggibile, la Storia è un divertente film pop che procede spedito, i militari sono viscidi figli di puttana, i boia lo fanno per soldi e convenienza, per pagare la retta di un figlio e trasformare l’altro in un campione di rugby a forza di mazzette, mentre una sequenza d’omicidio dura il tempo di un paio di spari e il sequestro di un individuo inerme si esaurisce nelle prime strofe, fino al ritornello, di una canzone vomitata all’improvviso dalla radio (piuttosto furbo – e a tratti volutamente didascalico – l’utilizzo dei pezzi rock in colonna sonora).
Una nota a parte merita infine Guillermo Francella, comico televisivo ben noto anche in Europa grazie al ruolo del poliziotto alcolizzato ne Il segreto dei suoi occhi di Juan José Campanella. Il suo Arquímedes Puccio, glaciale, tagliente e luciferino, si impone sin dalla prima scena con la forza che solo i grandi personaggi di celluloide riescono ad avere. Un ritratto di spietato padrino piccolo borghese che vale più del film, e che di sicuro resterà nella memoria di molti.
Massimo Lechi