di Antonella Pina.
La selezione dei film in competizione al 41° Festival di Deauville è stata decisamente buona e la giuria, presieduta da Benoit Jacquot, non ha avuto un compito semplice: “…siamo rimasti sorpresi dalla qualità di questa edizione. Abbiamo visto soltanto buoni film, quindi le decisioni che abbiamo preso saranno necessariamente un po’ ingiuste….”.
Alla fine la decisione ci è parsa giusta e il Grand prix è andato a “99 Homes“ di Rabin Bahrani: “…per la sua intensa forza drammatica e per l’interpretazione assolutamente eccezionale di Andrew Garfield e Michael Snannon”.
99 Homes, il sesto lungometraggio del regista di origini iraniane nato nel Nord Carolina, classe ’75, affronta ancora una volta un tema di drammatica attualità. Dopo Chop Shop, Goodbay Solo con cui vinse il premio Fipresci alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2008 e At Any Price, 99 Homes – anche questo in concorso a Venezia lo scorso anno – mostra una delle conseguenze più tragiche della crisi immobiliare che ha colpito l’ economia americana in questi ultimi anni: la perdita della casa da parte di molte famiglie impossibilitate a restituire i piccoli o grandi prestiti chiesti alle banche. A Orlando, in Florida, creato da un sistema capitalistico spietato in grado di corrompere il potere politico e giudiziario, si muove l’immobiliarista Mike Carver, interpretato da Michael Shannon. Con due poliziotti al seguito esegue gli sfratti per conto delle banche, immediatamente dopo la sentenza del tribunale e prima dei trenta giorni a disposizione degli occupanti per tentare un ricorso: concede cortesemente due minuti agli ex proprietari affinché portino via le cose più importanti – denaro, medicine, fotografie – e poi li fa accomodare in strada nell’attesa che una squadra di operai al suo servizio cambi le serrature e metta nel giardino tutto ciò che la casa contiene. Gli ex proprietari o chi per essi, hanno ventiquattr’ore per prendere gli oggetti che possono trasportare. Trascorso questo tempo ciò che resta sul prato appartiene alla banca. Le persone lo odiano. Alcuni vorrebbero ucciderlo, altri si uccidono vedendolo arrivare. Lui gira armato di pistola, l’odio e il dolore che accompagnano il suo passaggio lo lasciano indifferente: “nel mercato immobiliare non c’è posto per le emozioni. Le case sono solo scatole. Grandi scatole e piccole scatole. L’importante è possederne molte”. E lui ne possiede moltissime.
Il film in realtà non è costruito sull’analisi sociale e politica del problema ma sulle emozioni, sullo scontro tra il male e il bene, tra Carver e Dennis. Dennis, ovvero Andrew Garfield, un ragazzo padre che Carver ha messo in mezzo alla strada con il figlio e la madre – Laura Dern – e che, ammirandone la disperata determinazione, prende al suo servizio. Come Mefistofele compra la sua anima: “Se lavori per me, mi appartieni”. Dennis si trova così, improvvisamente, dall’altra parte della staccionata: è lui che suona il campanello e invita le persone ad uscire. Impara la disonestà ed il cinismo e soprattutto che “lavorare duro e onestamente non porta da nessuna parte”. In breve si arricchisce, può ricomprare la sua casa, anzi una casa ancora più grande e avrebbe davanti a sé un orizzonte dorato se non fosse che le sue emozioni non vogliono abbandonarlo. Nel pacchetto di 100 case requisite da Carver per un affare milionario, una appartiene ad una persona conosciuta che la coscienza di Dennis non vuole condurre alla rovina. Senza quella casa le altre 99 perdono ogni valore.
Lo sguardo che Bahrani, immigrato di seconda generazione, volge verso la società americana è disperato ma non rassegnato. Come Frank Capra settant’anni prima, crede ancora negli esseri umani. Nonostante la vita non sia meravigliosa, l’angelo Clarence non si aggiri più sui ponti delle periferie urbane e il vecchio cinico capitalista Potter sia ora un uomo giovane, affascinante e armato di pistola, George Bailey, delle Bailey Costruzioni e Mutui, può ancora salvare ciò che resta dell’anima americana.
Antonella Pina