di Juri Saitta.
Sono passati quarant’anni da quando Angelo R. Humouda fondò a Genova la Cineteca D. W. Griffith recuperando migliaia di pellicole appartenenti soprattutto al cinema muto. Un’operazione importante e coraggiosa attualmente portata avanti da Alba Gandolfo e Massimo Patrone, i quali – oltre a programmare alcune rassegne al Cinema America e al Teatro Altrove – stanno continuando a cercare film rari e sconosciuti per riproporli e, magari, rivalutarli.
Così, per festeggiare il suo quarantesimo anniversario, la Griffith ha organizzato una retrospettiva di tre giorni al Cinema Trevi di Roma svoltasi da giovedì 11 a sabato 13 giugno. Il programma è stato vario e interessante, composto sia da film muti sia da b-movies statunitensi che da film italiani anni 40 e ’50. E in ogni caso quasi tutte pellicole rare e introvabili.
Giovedì 11: La prima giornata di proiezioni è stata dedicata prevalentemente al cinema muto. Infatti, si è iniziato con Wild and Wolly (1917) di John Emerson (curiosa parodia del genere western con Douglas Fairbanks) e si è proseguito con Il romanzo di Tillie (1914), film comico diretto da Mack Sennett e interpretato da Marie Dressler, Mabel Normand e Charlie Chaplin. Qui l’attore è un dongiovanni diviso tra una bella ragazza con cui ha una relazione e una tozza donna di campagna che ha ereditato una grande somma di denaro dallo zio, ragione per la quale l’uomo intende sposarla. Un film in pieno stile Sennett: tante gag fisiche e il classico inseguimento con dei poliziotti imbranati e incapaci.
Naturalmente, non poteva mancare nel cartellone un’opera di David Wark Griffith: Zingaresca (1925). La pellicola narra le vicende di un circense imbroglione e della sua figlia adottiva. Qui, il grande regista americano unisce dramma e commedia, patetismo e comicità per raccontare una storia di affetto genitoriale e filiale (anche in mancanza di un legame di sangue) e ritrarre un mondo affascinante più volte descritto dalla Settima Arte: quello del circo e delle fiere.
Ma il film che per rarità spicca maggiormente è Sensualità, opera del 1952 diretta da Clemente Fracassi e interpretata da Amedeo Nazzari e da un giovane Marcello Mastroianni. La pellicola ha al centro Franca, una rifugiata che trova un lavoro occasionale in un campo di grano. Qui viene notata e corteggiata da Carlo, il fratello minore del proprietario della piantagione Riccardo. La protagonista illude l’uomo di amarlo, ma in realtà è interessata al fratello maggiore, più asprigno ma anche più maturo e deciso. La donna riuscirà a sedurre Riccardo, ma le conseguenze saranno tragiche.
Con Sensualità, Fracassi firma un melodramma rurale nel quale la passione e l’erotismo dei personaggi esplodono in tutta la loro carica grazie alle ottime performance dei protagonisti, a una regia con alcune buone idee (si pensi alla sequenza del fienile) e a una fotografia che gioca ottimamente con i contrasti di luce. Ma dietro al melò sentimentale, si cela anche un sottotesto più politico sul conflitto tra classi sociali: infatti, Franca è una proletaria che in qualche modo riscatta e vendica i soprusi subiti dalla propria classe d’appartenenza inserendosi nel mondo padronale (rappresentato da Riccardo e Carlo) per sfruttarlo e mettere in crisi i suoi equilibri interni.
Venerdì 12: Il secondo ciclo proiezioni si è diviso equamente tra lunghi e cortometraggi. Della prima serie sono da citare Precipitevolissimevolmente (1951) di John Paddy Carstairs, Tictaban – L’isola dell’amore perduto (1951) di Eduardo De Castro e Amami, Alfredo! (1940) di Carmine Gallone. La prima è una commedia inglese con un Norman Wisdom che fa da assoluto mattatore, mentre il film di De Castro è un curioso mix di documentario etnografico sulle Filippine e di melodramma d’avventura su una storia d’amore ostacolata da conflitti e gelosie. Tutto ciò in un’opera che per ambientazione e narrazione può ricordare vagamente il Tabù di Murnau. La pellicola di Gallone è, invece, ambientata nel mondo operistico e racconta la storia di una soprano che a causa di una malattia non può più cantare, ostacolando così la difficile carriera del marito compositore e preoccupando la sua governante. Nel narrare tutto ciò, l’autore unisce dramma e commedia, affidando in modo classico e tradizionale la parte più “tragica” ai protagonisti e quella più ironica ai comprimari.
I tre cortometraggi di venerdì appartengono tutti agli anni del muto: European Rest Cure (1905) di Edwin Stanton Porter e Cramps (1916) di Bud Fisher sono due pellicole con tonalità comiche (quella di Porter è una parodia sui Paesi europei, quella di Fisher è un film d’animazione tratto da una striscia a fumetti all’epoca molto popolare), mentre Polizeibericht Überfall (1928) di Ernö Metzner è un cupo film tedesco sul valore dato al denaro.
L’opera narra la storia di un uomo che, per via del possesso di una moneta, rischierà di essere truffato, aggredito e derubato. La pellicola risulta impressionante soprattutto per l’atmosfera angosciante che crea: la Germania ritratta da Metzner è un Paese alienato nel quale ci si sente costantemente in pericolo e in cui anche il più piccolo oggetto di valore diventa prezioso e irrinunciabile. Tale climax ansiogeno e allucinante non deriva soltanto dalla vicenda raccontata, ma anche e soprattutto dall’unione tra sequenze più realiste (quella della locanda) a particolari riprese sperimentali (presenti in primis nella scena della prostituta), che fanno del film un breve incubo sui timori e le paure della Repubblica di Weimar. Un piccolo capolavoro del cinema tedesco anni ’20 da recuperare assolutamente.
Sabato 13: Un cartellone di quattro film per l’ultima giornata romana della Griffith. Si parte con l’interessante cortometraggio sperimentale Pacif 231 (1949), nel quale Jean Mitry monta le immagini della corsa di un treno al ritmo della colonna sonora di Arthur Honegger, e si prosegue con Suds (1920) di John Francis Dillon, commedia con Mary Pickford su una lavandaia maltrattata da tutti che troverà l’affetto in un cocchiere e in un cavallo altrettanto sfortunati. Ma probabilmente i due picchi di sabato sono La carovana del peccato (1952) di Pino Mercanti e L’urlo dell’inseguito (1953) di Joseph H. Lewis.
Il primo è un melodramma rurale con tonalità western su una carovana di persone che vanno a lavorare nei campi di alcuni proprietari terrieri. Quando alla comitiva si aggiungerà un uomo misterioso dal torrido passato, gli equilibri del gruppo inizieranno a vacillare, a cominciare dalla donna a capo della compagnia, la quale s’innamorerà perdutamente del nuovo arrivato. Tra gli attori Franca Marzi e Domenico Modugno.
L’urlo dell’inseguito è una vera e propria chicca anche per la presenza di un Vittorio Gassman che recita in inglese. Nel film, l’attore è un uomo incarcerato per una rapina che deve dare alla polizia i nomi dei suoi complici. Un atto che il detenuto si rifiuta di compiere, preferendo evadere e ricominciare da capo la propria vita. Naturalmente, sarà inseguito da un detective piuttosto determinato. Al di là della presenza di Gassman, questo b-movie noir diretto da Joseph H. Lewis (La sanguinaria) risulta interessante per l’insolita ambientazione (parte della trama si svolge tra le paludi della Louisiana), per l’espressiva fotografia in b/n e per alcune buone idee di regia, come il piano sequenza della fuga e la scena del sogno, notevole per la composizione dell’inquadratura. Da citare anche il rapporto tra i due protagonisti: il poliziotto e l’evaso sono rivali soprattutto per i ruoli che ricoprono, ma provano in realtà un rispetto e una comprensione reciproci. Infatti, i due si assomigliano, in quanto sono entrambi uomini medi che sentono di dover dimostrare al proprio ambiente sociale di essere forti e coraggiosi, e dunque virili. Quello di Lewis è quindi un film dalla narrazione agile e dalle numerose idee formali che riflette su quanto il contesto influenza l’individuo e le sue azioni. (di Juri Saitta)