FESTIVAL DI CANNES – Cannes diari 5: Sicario di Denis Villeneuve, Jeremy Saunier…


Sicariodi Renato Venturelli.
Dopo l’ottimo Prisoners, il canadese Denis Villeneuve si conferma uno dei pochi autori intenzionati a praticare e rinnovare dall’interno un cinema americano di genere vivo, adulto e complesso, radicalmente estraneo alle mode ma assolutamente dentro al suo tempo.

A passare nel concorso di Cannes è Sicario, dove la giovane recluta dell’Fbi Emily Blunt viene cooptata in una formazione di specialisti nella lotta al narcotraffico col Messico. Fin dalla prima impresa, si rende però conto che la squadra agisce al di fuori della legalità, lungo un confine ambiguo che non è solo quello geografico, e dove la sua stessa presenza viene usata in modo strumentale.

Le vorticose scene d’azione che si svolgono lungo l’impossibile linea di demarcazione tra Stati Uniti e Messico, legalità e violenza, cinismo e pulsioni, scandiscono una voragine etica che è al tempo stesso individuale e sociale, è quella dei protagonisti, del mondo occidentale, di un cinema che sa ancora ritrovare la sintesi potente del racconto.

Villeneuve sa raccontare il mondo di oggi anche attraverso un serpente di auto nere che si snoda tra gli Stati Uniti e il Messico, segno di un male insinuante e innarrestabile, di un’eccitazione che si inoltra al di là dei confini imposti dalla morale e dalla legge, e di un cinema che sa rappresentare tutto questo attraverso l’efficacia delle immagini. Naturalmente, le sclerosi autoriali da festival rischiano di lasciare in ombra questo film che è invece uno dei più vivi visti finora in concorso. E con dettagli indimenticabili: a cominciare dalle infradito indossate da John Brolin durante le riunioni operative…

Le sezioni laterali continuano intanto a proporre film meno allineati e più sorprendenti rispetto alla selezione ufficiale. Alla Quinzaine passa addirittura un thriller ferocissimo, The Green Room di Jeremy Saulnier, regista indie di cui un paio d’anni fa s’era già visto qui Blue Ruin, naturalmente mai uscito nelle sale italiane. Stavolta Saulnier ci va giù ancora più pesante. C’è una punk rock band che va a suonare in giro per la provincia Usa e capita in un localaccio di razzisti. Dopo aver scatenato un po’ di caos dal palco, i ragazzi stanno per andarsene quando uno di loro entra in una stanza e scopre che un tizio del posto ha appena ucciso una ragazza con una coltellata in testa. Ormai hanno visto troppo: i gestori del locale sequestrano tutti i membri della band nell’ufficio, allontanano la polizia con una scusa e cominciano il massacro, usando anche i cani da combattimento per sbranare gli scomodi testimoni. E Saulnier si getta in un cinema di genere indipendente, violentissimo, serrato, non particolarmente complesso ma fortunatamente anche estraneo agli esibizionismi “di secondo grado”.

Nel campo del cinema di genere-con-ambizioni, da segnalare anche un paio di film sudcoreani passati in questi giorni nelle sezioni laterali. Shameless di Oh Seung-Uk (Un Certain Regard) è un melò sentimental-hardboiled che per oltre un’ora procede su ritmi lentissimi, per accendersi poi nel finale. Lui è un poliziotto che s’infila nella vita di una donna per dare la caccia al suo amante criminale, lei si lega sempre di più al nuovo arrivato, ignorandone la vera identità di sbirro, sperando sia l’occasione di una nuova vita. Dopo lunghissima attesa, arriva la feroce sparatoria finale, con appendice intimista altrettanto cruda. Quasi didattica la spiegazione di Oh, secondo il quale il cinismo “shameless” di poliziotti e gangster, analogo da una parte e dall’altra della legge,  rispecchia il carattere di molti coreani, che pur di raggiungere il loro scopo annullano le abituali distinzioni tra bene e male: da qui la centralità del noir nel raccontare la società coreana di oggi.

Violenza cruda e sfida ai principi morali come metafora della Corea del Sud anche in Coin Locker Girl (Semaine de la Critique), dove una bambina viene abbandonata in una stazione, cresce in strada, viene prelevata e inserita in una banda “familiare” dominata da una ferocissima figura materna. La lotta per la sopravvivenza le impone di collaborare a questa organizzazione di feroce spietatezza, dove le persone vengono fatte a pezzi per venderne gli organi, e la logica implacabile del microcosmo criminale è quella di un’intera società. Dirige l’esordiente Jun-Hee Han, con la star del cinema coreano Kim Hye-soo nel ruolo della glaciale madre-boss.

(Renato Venturelli)

 

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