di Renato Venturelli.
Arriva uno dei maggiori candidati della vigilia alla Palma d’oro: il Todd Haynes di Carol, storia dell’amore tra due donne nell’America dei primi anni Cinquanta, ispirata a un romanzo scritto da Patricia Highsmith sotto pseudonimo, pieno di bei vestiti e di belle auto che veicolano le ipocrisie dell’epoca attraverso la chiusura formale delle immagini.
Cate Blanchett è una signora d’alto bordo che fa colpo su una ragazzina fotografa (Rooney Mara), coinvolgendola in un’avventura “scandalosa”. E Todd Haynes si riallaccia all’operazione di Lontano dal paradiso e della Mildred Pierce televisiva: tutto è rigorosamente leccato, scenograficamente impeccabile, perché così dev’essere la rappresentazione di quel mondo inautentico (ma sotto sotto affascinante?). Le grandi pellicce indossate da Cate Blanchett prima di essere un abito sono quelle che indossava Joan Crawford nei melò d’epoca, e il citazionismo dovrebbe portare con sé una sorta di calore militante, un’intesa sotterranea con lo spettatore complice. Ma anche il tema della distanza sociale tra le due donne viene appena sfiorato: e la sensazione è che la narrazione rimanga prigioniera di un’ideologia raggelata, prima ancora che di uno stile.
Ancor più esplicitamente politico è La loi di marché di Stéphane Brize, dove l’aspetto ideologico diventa rigore di scrittura. Vincent Lindon è un ultracinquantenne che perde il lavoro, ne cerca disperatamente un altro, non ce la fa. Alla fine riesce a trovarlo come sorvegliante di un ipermercato. Sorveglia i clienti, prende i poveracci che rubacchiano per campare, finisce addirittura per dover incastrare le colleghe cassiere, perché bisogna ridurre il personale e quindi dare la caccia anche alle piccole irregolarità. Fino a che punto può degradarsi un uomo pur di poter lavorare? Il racconto è programmaticamente asciutto, esplicito ed essenziale, anche se i Dardenne di Due giorni una notte, citatissimi nei commenti al film di Brizé, avevano altra complessità. Ma è il momento delle interpretazioni da premio: e dopo Cate Blanchett e Rooney Mara in Carol, qui tocca a un monumentale Vincent Lindon, unico attore professionista del cast.
Stephane Brizé è una conferma in crescita del festival, Todd Haynes è una conferma in senso più ripetitivo. Il norvegese Joachim Trier è invece una grande delusione. Va negli Stati Uniti per raccontare in Louder Than Bombs la storia di una famiglia alle prese con l’improvvisa scomparsa della madre, grande fotografa morta in un incidente, forse suicida. L’inizio è sferzante, con Jesse Eisenberg che mentre si trova in ospedale per il parto della moglie rivede una sua ex e per farsela le lascia credere di avere la compagna in fin di vita. Poi però il film comincia a girare a vuoto, cercando una costruzione inutilmente cerebrale, imitando l’intelligenza scostante e frammentaria di certo cinema “indie” statunitense: con Gabriel Byrne nella parte del vedovo, e Isabelle Huppert come fotografa di guerra a fare ormai da stanca icona di un cinema d’autore globalizzato.
(Renato Venturelli)