FESTIVAL DI CANNES 2015 – Cannes diari 3: Moretti, Van Sant, Woody Allen…

morettidi Renato Venturelli.
Dopo le stroncature per Garrone, arrivano gli entusiasmi per Nanni Moretti a consolare i cronachisti italiani. Mia madre raccoglie consensi soprattutto tra i francesi, e nelle pagelle di “Le film français” fa praticamente il pieno di palmette d’oro, incassando i consensi dei “Cahiers” come di “Positif” o “L’Humanité”, e pure quelli di Serge Kaganski degli “Inrockutibles”.

A sorpresa, invece, bocciature unanimi per Gus Van Sant, che praticamente nessuno ha il coraggio di difendere. Il suo The Sea of Trees vede uno spento Matthew McConaughey recarsi in Giappone per togliersi la vita nella “foresta dei suicidi”, un luogo che google gli ha garantito essere il posto più bello per lasciare questo mondo. E da quel momento il film segue due piste. Da una parte segue il lungo peregrinare dell’aspirante suicida in mezzo agli alberi, scandito dai dialoghi con un misterioso giapponese conosciuto lungo la strada e sempre più simile a una creatura partorita dalla sua stessa mente. Dall’altra ci sono i flashback sulla vita precedente, il rapporto con la moglie, la malattia di quest’ultima, la promessa fattale di andare a morire in un posto bello, il migliore di tutti. L’ossessiva riflessione sulla vita e sulla morte può essere collocata nella scia di Last Days o L’amore che resta, il problema del film è che i due piani non solo faticano a integrarsi, ma sono entrambi condizionati da grevi banalità drammaturgiche in cui Van Sant finisce per smarrirsi.

Chi continua a ripetere sempre lo stesso film e a ricevere sempre le stesse accoglienze – nel bene e nel male – è Woody Allen, che passa fuori concorso con The Irrational Man. Joaquim Phenix vi interpreta un brillante professore di filosofia, che va a esibire la sua disillusione in un’università di provincia. Una collega pensa subito a portarselo a letto, una giovane studentessa (Emma Stone) ne resta sedotta, e lui all’improvviso trova il modo per ridare un senso della vita attraverso l’omicidio etico, dopo aver ascoltato una conversazione al bar alla maniera di  “23 passi nel delitto”.  La variazione su temi filosofici ed esistenziali al servizio della variazione su collaudatissime geometrie di cinema: il piccolo teatro di Allen vive in un’illusione di messiscena destinata a svaporare presto, come le infatuazioni dei suoi personaggi.

Alla Semaine de la Critique passa anche un film sulla carta interessante: Les Anarchistes di Elie Wajeman, interpretato dal Tahar Rahim di Il profeta.  Wajeman dice di amare molto i film sugli infiltrati, da I cospiratori di Martin Ritt a Donnie Brasco, e di aver voluto raccontare la storia di un giovane poliziotto insinuatosi tra gli anarchici parigini di fine ‘800 ispirandosi un po’ anche al Dostoevskij dei Demoni. Tutte ottime ambizioni, che tendono però a risolversi nell’ambito di una narrazione convenzionale: l’attenzione per i risvolti più privati della rivoluzione “individualista” sottrae il film agli scenari dell’epica sociale, ma finisce per lasciarlo imprigionato anche visivamente in una piccola dimensione da fiction.

(Renato Venturelli)

 

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