di Renato Venturelli.
Arrivano i grandi comprimari di Cannes, i candidati ai premi di contorno. Su tutti, il greco Yorgos Lanthimos, quello di “Dogtooth”, un collaudato professionista dell’eccentrico e della provocazione da festival. In The Lobster ci porta in una società dove chiunque sia single viene arrestato e deportato in una specie di hotel tra i monti, in cui avrà 45 giorni di tempo per incontrare altri single e trovare tra di loro la sua anima gemella. Se non ci riesce, viene trasformato in un animale a sua scelta.Se cerca di scappare e unirsi ai single della foresta, viene inseguito e catturato. Il protagonista cerca di sposare una donna crudelissima fingendosi spietato: lei gli uccide ferocemente a calci il cane, che è il fratello scapolo trasformato…
Più che una variazione su scenari distopici, The Lobster è un quadretto dell’assurdo in confezione glaciale, un’esibizione di sferzante disillusione nei confronti dell’umanità, con i single antagonisti che si rifugiano nel bosco per vivere all’interno di leggi altrettanto gratuitamente costrittive rispetto a quelle del Potere. Un cinema della crudeltà calcolatissimo, raggelato, astutamente umoristico: e confezionato con un cast di prim’ordine, che va da Colin Farrell a Rachel Weisz, da John C.Reilly a Léa Seydoux.
Lanthimos è ormai un nome collaudato dei festival, mentre un esordiente assoluto è l’ungherese Laszlo Nemes, che con Il figlio di Saul è anche l’unico del concorso in lizza per la Caméra d’or delle opere prime. Il suo tentativo è quello di raccontare in modo diverso l’orrore dei campi di sterminio nazisti, eludendo il rischio crescente del rispetto oloeografico. Sta con la macchina da presa addosso al suo protagonista e ci immerge con lui in un lager, mostrandocene l’implacabile funzionamento industriale, puntando sulla macchina a mano, l’accumulo dei corpi, le immagini ossessive e gli effetti di un sonoro lacerante. Il personaggio principale è un membro del Sonderkommando, deportati scelti dai nazisti per accogliere i nuovi prigionieri, tranquillizzarli e condurli alle camere a gas. La vicenda personale di cui è protagonista resta però secondaria rispetto allo scopo principale del film: mostrare in modo nuovo il funzionamento perverso della macchina della morte, immergendo lo spettatore in un universo visivo e sonoro frastornante, una specie di realizzazione terrena dell’inferno.
Tra i film in concorso piace Unimachi Diary di Kore-eda Hirokazu, ma l’altro giapponese d’inizio festival è An di Naomi Kawase, scartata a sorpresa dalla competizione e scelta per inaugurare “Un Certain Regard”. An è un film delicatissimo, tutto ambientato attorno a un negozietto dove un uomo cupo e dal passato misterioso confeziona piccoli dolci di pasta an e fagioli rossi per una clientela limitata: finché arriva un’ancor più misteriosa vecchietta, che porta con sé un’attenzione alla natura, al dettaglio, alla gestualità e alla tradizione tipica dell’opera di Naomi Kawase. L’anomalia del film sta nel fatto che la vecchietta che parla ai fagioli nasconde dietro di sé una tragedia storica: quella dei malati di lebbra, confinati in un quartiere isolato nel Giappone del dopoguerra, strappati da adolescenti alle loro famiglie e condannati per decenni a non aver più alcun contatto col mondo esterno. Il dialogo sottile e ininterrotto con la natura diventa così anche il segno di una costrizione soffocante, di una lacerante privazione della vita, portando con sé una dimensione storica in parte spiazzante.
Passa a “Un Certain Regard” anche Un etaj mas jus (One Floor Below), del romeno Radu Muntean, una storia di quotidianità ossessiva, basata su un fatto di cronaca nera che diventa a poco a poco sempre più interiorizzato. Protagonista, un uomo che salendo le scale di casa è testimone di un violento litigio tra un uomo e una donna in un appartamento dei piani infeirori. Quando poi la donna viene trovata uccisa, il testimone tace, ma è comunque costretto a confrontarsi con quello che ritiene sia l’assassino, iniziando con lui un tortuoso rapporto. Ma la questione etica che sta alla base della vicenda diventa col passare del tempo una questione sempre più ambiguamente interiore, di confronto col proprio “doppio”, scandita dalle inquadrature fisse di Muntean: una quotidianità che perde a poco a poco i suoi contorni cronachistici, rivelando un cinema molto più sfumato e inquieto.
(Renato Venturelli)